Viviamo in un’epoca densa d’immagini e l’immagine è per antonomasia, quando si eleva ad arte – pittorica o cinematografica – stupore. Spesso quando guardiamo un bel quadro, specie del passato, almeno fino agli impressionisti, dove c’è ancora il gusto classico dell’esperienza artistica, non abbiamo idea del lavoro preparatorio, a volte di anni, che c’è dietro. Stessa cosa vale naturalmente per i film. Pare che Sergio Leone lavorò al suo ultimo film C’era una volta… in America per ben dodici anni, e che del copione di circa 300 pagine, durante le riprese, venisse girata una pagina al giorno; cosa che ci fa facilmente comprendere il livello di cura e dettaglio dell’opera stessa. Tutto questo può portarci a ragionare sul concetto di stupore in termine quasi romantici, come d’impressione del fruitore di fronte al risultato finale.
Mi limiterò, in termini più prosaici, a ragionare sul concetto di effetto, e a ridefinire più alla portata di un umile artigiano, quale spesso è lo scrittore, il risultato dello stupore. Per stupire un lettore è sufficiente – per noi che non siamo degli Shakespeare del Romanzo – realizzare l’obiettivo di déplacement, spiazzamento o evasione dalla routine, con conseguente impressione di piacere che una storia può realizzare. Quello di cui vi parlo, quindi, è uno stupore alla portata di tutti noi.
Detto questo, scrivere una storia è avere a che fare con qualcuno che mentre legge, fa continuamente delle congetture. E’ normale che il lettore si aspetti delle cose, e ragioni, proprio mentre la nostra storia si svolge nella sua mente. Il concetto, per così dire, operativo di stupore, pratico, è dunque molto vicino a quello di suspense, anche se non è esattamente la stessa cosa. Ha a che vedere con la capacità di intrattenere il lettore stupendolo sugli esiti che prende la trama, e sul mondo che gli raccontiamo.
Faccio un esempio che ci può chiarire le idee. In questo periodo sto leggendo 1984 di George Orwell. Una lettura più volte rimandata nel corso degli anni, e che oggi mi sembra quasi doverosa. Premetto: non ho intenzione, con le mie osservazioni, di spolielare la trama di questo classico, altra categoria artistica sulla quale, insieme al concetto di stupore, sarebbe interessante riflettere.
La lettura di 1984 è quasi obbligata oggi e questo post non può riassumere certo ciò che c’è da dire su questa pietra miliare del Novecento. A tal proposito, basterà qualche cenno: il libro è scritto nel 1948 da George Orwell, che in realtà si chiamava Eric Arthur Blair, ed è il suo maggiore successo. L’autore immagina di scrivere nel 1984. Termini come grande fratello, neolingua sono entrati nel vocabolario comune. E’ un libro sorprendente, e stupefacente, per la sua attualità. Non dimostra affatto i suoi anni – è stato scritto subito dopo la Seconda guerra mondiale – e sembra contenere molti motivi che percorrono la convivenza dei nostri giorni.
Innanzitutto, 1984 è una lezione in termini di genere letterario. Oggi siamo tutti grandi fruitori di serie tv, spesso distopiche, e la cosa può sorprendere relativamente, ma alla sua epoca 1984 – il libro del grande fratello, com’è più noto – deve aver fatto il suo bell’effetto. Parve addirittura in anticipo sui tempi. Borges diceva di Orwell che lo affascinava la capacità di trattare con realismo asciutto l’incredibilità e il fantastico. In effetti il mondo narrativo di 1984 ci appare razionale, preciso, ricco di dettagli. E’ una perfetta metafora della società ma anche un quadro estremamente realistico, al quale possiamo credere senza difficoltà. Non è difficile stipulare, con Orwell, il patto finzionale di cui ho vi parlato nel mondo narrativo di uno scrittore.
Il carattere visionario e predittivo rispetto alla società odierna è uno degli elementi di maggiore fascinazione di 1984. La società viene immaginata come un’immensa macchina narrativa deputata a informare in modo superficiale, cancellare quotidianamente cultura, dove tutti sono perennemente controllati da un grande fratello che vede tutto e registra tutto. Le persone non hanno più privacy, il mondo è dominato da poche superpotenze costantemente impegnate in microguerre dove ognuna cerca di minimizzare i rischi. Pochi sono molto ricchi e molti sono poverissimi. E’ sorta una neolingua che ha cancellato molte parole e che tiene in uso solo quelle conformi al regime culturale in voga. Ogni giorno, gli eventi della storia vengono riscritti nella maniera che è più consona al gruppo dominante. La possibilità di fare vita sociale è molto ridotta, in questo mondo in cui sono tutti controllatissimi.
Orwell diceva che molte delle ipotesi fantascientifiche del suo romanzo, altro non sono che speculazioni sociologiche sulla società del suo tempo, e che non è difficile una volta che si individuano delle tendenze in una società portarle alle estreme conseguenze attraverso un’opera di fantasia. Sarà vero, ma a me il libro fa quasi l’effetto di un falso d’autore: potrebbe sembrare scritto da un giornalista del nostro tempo che abbia voglia di fare una sintesi definitiva sui caratteri più pericolosi e limitanti della nostra evoluzione sociale. Sia chiaro, sto esagerando; perché 1984 è e resta soprattutto un’opera di fantasia.
Le considerazioni sullo stupore riguardano nella versione più piccola – per artigiani della parola – anche il modo in cui è concepita la trama. Ci troviamo proiettati in una cornice distopica e asettica, in un mondo dove le emozioni non sono ben viste o considerate addirittura pericolose, e in cui sembra non ci sia grande spazio per i sentimenti. Eppure, appena ci inoltriamo nel racconto siamo sorpresi dal racconto di una storia d’amore tra il protagonista del libro e una giovane ragazza che egli conosce e con la quale inizia a intrattenere dei rapporti sociali.
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