C’è un momento importante, fra tanti altri, all’interno dell’archetipo conosciuto come viaggio dell’eroe. E’ il momento nel quale il protagonista riflette se accettare o meno la missione che gli è data, o che gli si prospetta all’orizzonte. Di solito il nostro protagonista è pieno di dubbi, non si sente all’altezza, ha bisogno di riflettere e pensarci. Questa situazione scandisce il primo atto della narrazione.
Accade così, per esempio, in tanti racconti epici e in strutture narrative che utilizzano la struttura mitica del viaggio dell’eroe, e in molte serie tv odierne. Si dice che il 90% dei film di Hollywood sia costruito seguendo le fasi di questo archetipo.
La chiamata
La chiamata all’avventura è, quindi, la prima tappa di un viaggio eroico. Come fa un eroe a decidersi e a non rifiutarla, e a capire che non può tirarsi indietro? Credo che con un po’ di abitudine alle fiction e alle storie in genere, ai film, sappiamo darci bene una risposta. Nella prima fase l’eroe si può rifiutare ma poi si deciderà nel momento in cui vede che qualcosa di importante è in bilico. Nell’Iliade di Omero, per esempio, Achille decide di non partecipare alla guerra. Lo farà soltanto nel momento in cui si sentirà direttamente coinvolto (l’uccisione di Patroclo). Nell’Odissea, all’inizio degli eventi, Ulisse si trova a Itaca in compagnia di sua moglie Penelope e di suo figlio Telemaco. Non vuol partire per la guerra di Troia, ma la dea Atena, sua consigliera, lo convince e continuerà ad aiutarlo anche nel corso della storia.
Alla prima tappa e alla chiamata ne seguono molte altre, la struttura del viaggio dell’eroe ne prevede in tutto dodici o più. Il modo in cui gestiamo le tappe, e anche il tempo narrativo che passa tra una tappa e l’altra è fondamentale; occorre saper creare la giusta suspense all’interno della narrazione. Un certo rigore formale è necessario: non tutte le tappe hanno la stessa importanza, occorre declinarle bene e con ritmo. Inoltre, il nostro protagonista non è solo all’interno della storia, ed è importante affiancargli personaggi di supporto – tra i quali anche gli antagonisti o l’antagonista devono avere un ruolo, per tenere viva la storia.
Buono cattivo?
Il nostro protagonista è credibile e ben costruito se risulta “umano”. Lo avrete sentito dire tante volte, ed è indubbiamente così. Sono i difetti a rendere umani e realistici i personaggi di una storia, anche chi ne svolge il ruolo principale. Tale è la figura del protagonista: la parola “protagonista” deriva da una parola del greco antico πρωταγωνιστής, comp. di πρῶτος «primo» e ἀγωνιστής «lottatore, combattente»; la parola, usata nel greco ant. con sign. generico, viene adottata nel linguaggio teatrale soltanto alla fine del sec. 17°, dapprima in inglese e successivamente anche in ital. Con riferimento al teatro classico, indica l’attore che sosteneva sulla scena la parte del personaggio principale.
Anche se il protagonista è un agente positivo nei confronti della storia, ciò non toglie che possa avere tratti ambigui. Vediamo del bene in lui, fin dall’inizio, delle qualità, ma anche tanti difetti e ostacoli a essere come davvero se stesso. Egli tende a voler essere migliore, potremmo dire. Facendo un paragone con la filosofia, il protagonista è una versione reale e aristotelica di un ideale platonico e perfetto al quale tendere. Esempio molto calzante di questa situazione lo abbiamo in Pinocchio. Fin da quando appare nella storia, dapprima solo un pezzo di legno, Pinocchio ha delle potenzialità. Vediamo che Geppetto lo trasforma in un bel burattino, gli rifà le gambe, ma questo non basta; il resto della trasformazione la dovrà fare Pinocchio stesso, vivendo al meglio le proprie avventure.
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