Iniziamo una rubrica che poggia su un classico e un bestseller dei giochi letterari, gli Esercizi di stile di Queneau. In questo libro del 1947, l’autore Raymond Queneau propone al lettore un divertissement di 99 giochi con figure retoriche e stili, che consistono sostanzialmente nella riscrittura di un testo in infinite varianti. L’edizione italiana è tradotta da Umberto Eco, che ha fatto anche la prefazione del libro nella nostra lingua.
Cos’ha di bello e di interessante quest’opera di Queneau? Sostanzialmente, tutto. Perché è interessante? Perché l’Autore si cimenta con una grande varietà di stili – dall’epico, al drammatico, dal racconto gotico alla lirica giapponese – giocando perfino con sostituzioni lessicali e variazioni sintattiche che arrivano al comico e al poetico.
Insomma, si tratta di una microstoria riscritta un numero notevole di volte. Nella prefazione è lo stesso Eco a precisare alcuni aspetti che fanno dell’opera un gioco quasi enigmistico: “ A scorrere l’elenco degli esercizi sembra che Queneau non abbia lavorato secondo un piano. Essi non sono in ordine alfabetico, né in ordine di complessità crescente. A prima vista l’esperto di retorica si rende conto che egli non ha messo alla prova tutte le figure retoriche e non ha messo alla prova solo quelle. Non le ha provate tutte, perché curiosamente mancano la sineddoche, la metonimia, l’ossimoro (… ) e si potrebbe continuare.”
Sembra interessante quest’altra considerazione di Eco, che ci fa comprendere come leggerezza e divertimento letterari vadano insieme: “ D’altra parte, questa sapienza retorica non va presa troppo sul serio. Queneau spesso gioca ( e qui non si può non usare un ossimoro) a prendere le figure alla lettera. Ovvero prende alla lettera l’enunciazione della regola, e tradendo il senso della regola, ne trae un ulteriore motivo di gioco.”
Ciò che può essere utile scoprire in questo classico non è tanto l’universo sconfinato delle figure retoriche, alcune delle quali le usiamo tutti i giorni, senza averne la minima consapevolezza (come la litote, esercizio n° 3). A chi non è capitato di dire “non sto bene” per precisare che stava male, oppure che non è al settimo cielo per descrivere uno stato momentaneo di infelicità o fastidio? La litote è appunto quella figura che attenua l’espressione di uno stato di cose utilizzando una negazione che eufemizza il concetto. Per esempio, di Don Abbondio Manzoni scrive nel presentarlo che “non era nato con cuor di leone” e vuol parlare in maniera comica cercando di renderla meno greve, della mancanza di coraggio o pavidità del proprio personaggio. La vera lezione del libro consiste da un lato nel divertimento puro e semplice, dall’altro nello scoprire che esiste tanto che possiamo imitare e si trova davanti a noi tutti i giorni. Uno degli aspetti più curiosi è quello dell’imitazione dei generi non letterari attraverso alcuni registri come il telegrafico, il disinvolto, il maldestro, che si mischiano al registro da commedia, al geometrico e al fantomatico; un po’ come nell’esperimento sull’antilingua di Italo Calvino, anche Queneau sembra voler catalogare la realtà nelle sue infinite espressioni, e attraverso i suoi problemi linguistici.
Ben vengano gli esercizi di stile di Queneau, se servono a far recuperare al linguaggio stile e giocosità, contro la piattezza e facilità con cui talvolta si può tendere a costruire un contenuto. Ognuno poi sceglierà il proprio limite; nel libro si manipola il contenuto e lo si forza, per prestare il testo il gioco, uno Scrittore forse non può permettersi così tanto, ma può provarci e vedere cosa succede.
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