Margaret Cavendish, duchessa e pensatrice seicentesca, viene smontata e ricostruita dalla narrativa contemporanea. Il saggio di Marina Leslie mostra come storia, fiction e archivio diventino strumenti di potere, invenzione e identità.
Indice
- Il peso della memoria: chi decide il racconto delle donne?
- Ritratti divergenti, identità mutevoli
- Una follia comoda – e inventata
- L’archivio come finzione creativa
1. Il peso della memoria: chi decide il racconto delle donne?
Margaret Cavendish – duchessa, autrice, pensatrice – non è mai stata una figura semplice. Troppo visibile, troppo strana, troppo prolifica. Troppo. La sua presenza scomoda attraversa secoli di letture e riletture, mescolando verità storiche e proiezioni culturali. Ma a chi appartiene, oggi, la sua immagine? È questa la domanda che Marina Leslie pone nel suo saggio Archival Bodies, Novel Interpretations, and the Burden of Margaret Cavendish – un testo che appare fin da subito come un invito, anzi, una sfida: guardare l’archivio non come raccolta di fatti, ma come campo di battaglia per la memoria. Perché raccontare Margaret Cavendish significa, sempre, prendere posizione – e decidere che tipo di donna siamo disposti a vedere nel passato.
2. Ritratti divergenti, identità mutevoli
Due romanzi recenti – Margaret the First di Danielle Dutton e The Blazing World di Siri Hustvedt – offrono versioni divergenti della duchessa. Dutton costruisce una protagonista onirica, instabile, fragile come porcellana; Hustvedt, invece, evoca Cavendish per interposta persona, attraverso l’artista Harriet Burden – colta, feroce, invisibile. In entrambi i casi, Cavendish diventa materia narrativa, oggetto di proiezione – o meglio, sintomo di un problema più grande: l’inafferrabilità del soggetto femminile nella scrittura. A ogni biografia corrisponde un volto; a ogni romanzo, un travestimento; a ogni lettura, una maschera. Ma chi, tra tutte queste Margaret, somiglia alla donna reale? Forse nessuna. Forse tutte. Oppure – forse – è proprio questa molteplicità a dirci qualcosa di più vero della verità stessa.
3. Una follia comoda – e inventata
“Mad Madge”: così venne etichettata Margaret Cavendish. Ma chi ha pronunciato per primo queste parole? Non fu Pepys – come spesso si crede – ma un antiquario dell’Ottocento, Mark Anthony Lower, il quale inventò il soprannome e lo attribuì (falsamente) a presunte contemporanee invidiose. Da lì, però, l’epiteto prese piede – e non si è più fermato. Biografi, studiosi, romanzieri: tutti, prima o poi, hanno fatto ricorso a questa scorciatoia narrativa. Perché funziona. Perché consola. Una donna che scrive troppo, che parla troppo, che osa troppo – dev’essere, in fondo, un po’ folle. O no? E così, la follia diventa filtro, cornice, giustificazione. Ma anche arma. E Cavendish – con la sua prosa esuberante, con le sue apparizioni teatrali, con la sua ostinazione – continua a sfidare ogni diagnosi. Non era pazza. Ma non era neppure docile. E questo, forse, ha spaventato più di tutto.
4. L’archivio come finzione creativa
Nel saggio di Leslie, l’archivio non appare come una semplice fonte – ma come un attore narrativo. È mutevole, selettivo, a tratti persino ingannevole. E proprio per questo – paradossalmente – fertile. Il passato, qui, non viene solo studiato: viene ri-raccontato, immaginato, messo in scena. Non è un caso che Hustvedt strutturi il suo romanzo come un archivio fittizio – fatto di voci, documenti, lettere, testimonianze – in cui Cavendish risuona, senza mai essere presente. E non è un caso che ogni interpretazione della duchessa sembri più una creazione che una scoperta. Marina Leslie non cerca di “riparare” la figura di Margaret Cavendish; piuttosto, suggerisce un’altra strada: usarla come specchio – specchio di chi scrive, di chi legge, di chi cerca nel passato un modo per interrogare il presente. Non per trovare risposte certe – ma per generare nuove domande.
Leslie, M. (2022). Archival Bodies, Novel Interpretations, and the Burden of Margaret Cavendish. In J. Fitzmaurice, N.J. Miller & S.J. Steen (eds.), Authorizing Early Modern European Women: From Biography to Biofiction (pp. 71–84