“Più francese degli americani”: Paul Auster e The Book of Illusions

Attraverso The Book of Illusions, William Cloonan indaga le profonde connessioni tra Paul Auster e la tradizione letteraria francese, esplorando come strutture, temi e atmosfere galliche permeino la narrativa di uno scrittore apparentemente tutto americano.

Indice

  1. Quando il romanzo americano parla francese
  2. La “French Theory” tra i banchi di Columbia
  3. Un romanzo francese camuffato da romanzo americano
  4. Il caso come destino, il pensiero come rifugio
  5. La finzione come cura, l’illusione come necessità

1. Quando il romanzo americano parla francese

Cosa succede quando un romanzo americano si comporta come un romanzo francese? Quando l’azione lascia il passo all’introspezione, quando la struttura narrativa si piega all’analisi filosofica e non al ritmo dell’intrigo? È questo il paradosso che anima The Book of Illusions di Paul Auster, oggetto dell’analisi di William Cloonan nel saggio An American Excursion into French Fiction. In un’epoca in cui il dominio culturale statunitense sembrava irrefrenabile, il romanzo di Auster — ambientato interamente negli USA — rappresenta invece un gesto di omaggio, consapevole e strutturale, alla grande tradizione narrativa francese.

Ma davvero si può essere “lo scrittore americano più francese”, come scrisse Jean-Philippe Mestre sul quotidiano Le Progrès (Cloonan, 2018, p. 185)? E, ancora più radicalmente, cosa significa essere “francese” nella scrittura, oggi?

2. La “French Theory” tra i banchi di Columbia

Per rispondere, Cloonan ci riporta al 1966, all’università Johns Hopkins, quando Jacques Derrida, Roland Barthes, Lacan e Todorov portarono in America la cosiddetta French Theory — un’eruzione intellettuale che avrebbe segnato per sempre la critica letteraria americana. Questo momento rappresenta, secondo Cloonan, non solo l’“americanizzazione” della teoria francese, ma anche la nascita di un clima culturale fertile per autori come Auster, studente alla Columbia proprio in quegli anni (Cloonan, 2018, p. 181).

Quella “teoria francese” — così francese da non esistere in Francia se non nel nome che le fu attribuito dagli americani — si tramutò in una chiave ermeneutica universale, applicabile alla letteratura, alla sociologia, alla psicologia e, infine, alla scrittura narrativa. È qui che Auster si forma, assorbendo Derrida senza leggerlo, traducendo poeti francesi, vivendo a Parigi, innamorandosi di una cultura che, in fondo, gli è più che familiare.

3. Un romanzo francese camuffato da romanzo americano

The Book of Illusions è tutto tranne che un romanzo di azione. Nonostante il protagonista — David Zimmer — attraversi lutti, incontri, fughe, e indagini, la vera arena della narrazione è la sua mente: “Il romanzo si svolge non nel New England, né nel New Mexico, ma nella mente di David Zimmer”, scrive Cloonan (2018, p. 189).

La struttura del romanzo ricalca fedelmente lo schema della narrativa classica francese — da La Princesse de Clèves a Camus: ogni evento esterno è pretesto per una lunga riflessione, ogni gesto provoca un’interrogazione interiore, ogni perdita diventa filosofia. A differenza del romanzo americano, dove, come afferma Warren Motte, “qualcosa deve accadere” (cit. in Cloonan, 2018, p. 180), nel romanzo francese “qualcosa deve essere pensato”. Auster adotta questa seconda logica — e lo fa con un’intensità che disorienta il lettore statunitense medio, ma affascina quello francese, abituato a muoversi tra Balzac e Robbe-Grillet.

4. Il caso come destino, il pensiero come rifugio

Un altro elemento chiave è il caso — non solo come tema, ma come principio strutturante. David sopravvive alla morte della famiglia grazie a una serie di coincidenze: scopre per caso i film di Hector Mann, riceve per caso un incarico di traduzione, incontra per caso Alma. Il caso diventa un motore narrativo — e qui Auster si allontana tanto dai surrealisti quanto dagli oulipiens.

Se per i surrealisti il caso è ispirazione inconscia e per l’Oulipo un nemico da combattere con strutture rigide (si pensi a La Disparition di Perec), per Auster il caso è realtà. È semplicemente ciò che accade nella vita — inspiegabile, a volte salvifico, a volte crudele. Non si tratta di un principio estetico, ma esistenziale. “Chance,” scrive Auster, “è più terribile della finzione” (cit. in Cloonan, 2018, p. 191). Una frase che riecheggia le riflessioni di Camus sul destino e sull’assurdo.

5. La finzione come cura, l’illusione come necessità

Ecco allora che emerge il vero cuore del romanzo: l’illusione come terapia. Non l’illusione rivolta al lettore — quella del cinema o del romanzo in senso classico — ma l’illusione che serve al creatore stesso, allo scrittore, per sopravvivere.

Per David Zimmer, scrivere The Book of Illusions significa salvarsi; per Hector Mann, girare film che nessuno vedrà significa restare in vita. “Make them as though your life depended on it … once your life is over, see to it that they are destroyed” — scrive Auster (cit. in Cloonan, 2018, p. 199). Il valore dell’opera non sta nell’impatto sull’altro, ma nell’effetto sull’autore: protezione, rifugio, sospensione del dolore.

In questa visione, l’arte non è celebrazione ma scudo, non comunicazione ma isolamento volontario. Una concezione profondamente europea — e forse addirittura francese, se pensiamo a Blanchot, a Sartre, a Tournier. La letteratura come illusione necessaria per esistere.

Bibliografia

Cloonan, W. (2018). An American Excursion into French Fiction: The Book of Illusions. In: Cloonan, W., Frères Ennemis: The French in American Literature, Americans in French Literature. Liverpool: Liverpool University Press, pp. 179–204.

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