In questo articolo esploriamo la rilettura del religioso operata da George Eliot nel romanzo Middlemarch, dove la fede istituzionale lascia spazio a una spiritualità diffusa e quotidiana. Analizzando la tensione tra vocazione personale, ordine sociale e mistica laica, emerge una nuova forma di sacralità incarnata nell’etica della responsabilità, nella rinuncia e nell’arte.
Indice:
- Religione senza religione: la spiritualità secolare in Middlemarch
- Vocazione artistica, rinuncia e l’etica dell’umiltà
- Clericalismo, professionalità e integrità: i sacerdoti laici di George Eliot
- Mistica dell’ordinario e risacralizzazione della vita quotidiana
1. Religione senza religione: la spiritualità secolare in Middlemarch
Middlemarch è, sorprendentemente – o forse inevitabilmente – uno dei romanzi più religiosi di George Eliot, pur evitando con cura il linguaggio dottrinale e le dispute confessionali. Ambientato nell’Inghilterra della prima metà dell’Ottocento, il romanzo si muove in un tempo di passaggio, in cui la religione istituzionale va perdendo forza normativa e ruolo pubblico. Eppure, qualcosa di sacro continua a sopravvivere: non nei dogmi, non nei sermoni, ma nell’intimità della coscienza individuale – nel gesto quotidiano, nella cura silenziosa, nella coerenza morale.
Eliot non contrappone fede e ragione, non rifiuta la religione né la esalta. Piuttosto, la trasforma. Ne sposta il baricentro – dal culto all’etica, dalla chiesa alla vita vissuta, dalla predica alla responsabilità. In questo contesto si inserisce la figura di Dorothea Brooke, giovane donna idealista e assetata di senso, che sogna di vivere una vita epica, fatta di rinuncia, servizio, spiritualità. Ma le circostanze – un matrimonio infelice, un mondo che non sa accoglierla – le impongono un altro cammino. Un cammino più difficile, più intimo, ma anche più autentico.
È proprio in questa disillusione che si compie il suo percorso spirituale. Perché Dorothea, fallita santa, mancata riformatrice, scopre nel silenzio dell’esperienza – nel dolore, nella rinuncia, nella capacità di ascoltare – una via diversa: la mistica dell’ordinario. Una forma di sacralità senza altari né reliquie, in cui la santità si misura nella pazienza, nella sobrietà, nella fedeltà a ciò che è giusto anche quando non è visibile. Orr (2018) interpreta questo movimento come una vera e propria interiorizzazione del religioso: il romanzo non abbandona la religione – la riformula.
In questo senso, Middlemarch diventa una teologia senza dogmi. Una religione senza religione. Una narrazione in cui la spiritualità non si impone dall’alto, ma sorge dal basso – nei legami tra le persone, nella tensione verso il bene, nel rifiuto dell’ego. Nessun miracolo, nessuna predica, nessuna rivelazione: solo vita, solo scelte. Eppure – e questo è il paradosso centrale del romanzo – proprio in questa ordinarietà, in questa sobrietà etica, si nasconde un senso profondo, quasi sacro, della condizione umana.
2. Vocazione artistica, rinuncia e l’etica dell’umiltà
Parallelamente alla riflessione sulla spiritualità secolare, George Eliot esplora un’altra forma di vocazione – meno visibile, forse, ma non meno sacra. È la vocazione dell’artista. Una chiamata profonda, inquieta, spesso ambigua, che si avvicina per intensità alla missione religiosa. Eliot ne parla nei suoi due poemi più intensi – The Legend of Jubal e Armgart – scritti proprio prima di iniziare Middlemarch. In essi, l’artista non è mai soltanto un creatore: è anche un testimone, un servitore, talvolta persino un martire (Orr, 2018).
In The Legend of Jubal, tutto comincia con un gesto di ascolto. Jubal sente, capta, traduce – e così nasce la musica. Ma quella musica, una volta donata al mondo, non gli appartiene più. Jubal diventa un’ombra, un’eco dimenticata, mentre il suo canto si diffonde, libero e anonimo. Il poeta – ci suggerisce Eliot – paga un prezzo. Dà tutto, e in cambio riceve il silenzio. Anzi, l’oblio. E tuttavia non si tira indietro: la creazione, per lui, è missione; il sacrificio, inevitabile. L’arte nasce così – da una rinuncia, da una perdita, da un atto d’amore che non chiede ricompensa (Orr, 2018).
Armgart racconta un’altra storia, più intima e bruciante. Una cantante, una voce celebrata e potente, viene improvvisamente colpita dalla malattia. Non può più esibirsi. Non può più essere ammirata. E allora? Si chiude in sé stessa? Maledice il destino? No. Scopre, lentamente, dolorosamente, una nuova via: insegnare. Trasmettere. Condividere senza più brillare. L’applauso lascia il posto alla dedizione, il talento alla cura, la gloria alla responsabilità. E proprio in questa scelta – sobria, concreta, difficile – Armgart ritrova il proprio valore (Orr, 2018).
George Eliot, con questi due ritratti, ci propone una concezione dell’arte che sa di rivoluzione. Non più trionfo dell’individuo, ma servizio all’umanità. Non più genio solitario, ma presenza solidale. Il vero artista, come il vero credente, si distingue per la capacità di accettare il limite – di fare, sì, ma senza pretendere; di creare, certo, ma senza esigere il plauso. L’artista che “fa bene il poco”, che unisce ispirazione e realtà, che sceglie l’umiltà anziché la grandezza – è l’artista che Eliot riconosce come autentico. E lo stesso principio attraversa Middlemarch: un’idea di grandezza fatta di dedizione silenziosa, di rinunce interiori, di scelte quotidiane che non riempiono le cronache – ma costruiscono, silenziosamente, il bene comune.
3. Clericalismo, professionalità e integrità: i sacerdoti laici di George Eliot
Se la religione tradizionale perde autorità, che ne è dei suoi rappresentanti ufficiali? Eliot risponde a questa domanda con una rappresentazione ironica ma compassionevole del clero anglicano. In Middlemarch, i sacerdoti non sono più guide spirituali, ma funzionari, uomini tra gli uomini, chiamati a svolgere un mestiere tra gli altri. Il reverendo Farebrother, ad esempio, è un prete scientificamente curioso, dotato di sensibilità morale ma privo di autentico fervore religioso; il reverendo Cadwallader è più appassionato di pesca che di teologia; e Casaubon, il più “spirituale” di tutti, è in realtà il più sterile, incatenato a un’idea morta di sapere e incapace di relazioni vive (Orr, 2018).
Eliot invita così a valutare i religiosi non per il ruolo che ricoprono, ma per la loro integrità personale. La sacralità non risiede più nella funzione, ma nell’autenticità con cui essa è esercitata. In questo senso, anche figure laiche come il medico Lydgate o il fattore Caleb Garth assumono una dimensione quasi sacerdotale, nella misura in cui vivono la loro professione con un senso di vocazione e responsabilità verso il bene collettivo (Orr, 2018). Non è l’istituzione a rendere sacro un lavoro, ma la coerenza morale e la dedizione con cui lo si svolge.
In quest’ottica, Eliot propone un’idea radicale: la vera religione del presente è l’integrità nella vita professionale e sociale, la fedeltà a una missione che nasce dall’etica e non da un’autorità trascendente. Come osserva il narratore in Felix Holt, “non esiste vita privata che non sia determinata dalla vita pubblica” (Orr, 2018), e ogni atto quotidiano può assumere un valore spirituale se compiuto con coscienza e rispetto dell’altro.
4. Mistica dell’ordinario e risacralizzazione della vita quotidiana
Il contributo forse più originale di George Eliot alla riflessione moderna sulla religione è l’idea che il sacro possa risiedere nell’ordinario. Questo concetto, che anticipa le intuizioni di filosofi contemporanei come Richard Kearney, si traduce nella costruzione di personaggi che, pur privi di fede dogmatica, vivono con un’intensità morale che ha tutte le caratteristiche della mistica (Kearney, 2010). Dorothea Brooke, in particolare, incarna questa “anateismo”: un ritorno a Dio dopo Dio, una spiritualità che nasce dalla perdita della religione tradizionale e si rinnova nell’esperienza della cura, della compassione, del lavoro ben fatto.
Nell’epilogo del romanzo, Eliot ci dice che Dorothea “visse nascosta nella vita di un altro”, ma che il suo agire discreto e generoso ha contribuito “al bene che si cresce nel mondo”. Questo è il cuore della mistica laica eliotiana: fare il bene senza clamore, costruire senso attraverso le relazioni, contribuire al mondo con umiltà. Non servono visioni, miracoli o rivelazioni: basta la consapevolezza che ogni gesto, ogni parola, ogni scelta può avere un valore eterno se fatto con amore e responsabilità.
In questa prospettiva, il romanzo stesso diventa un atto religioso: un’opera che invita il lettore a riconoscere il sacro nel quotidiano, la luce nella banalità, la grazia nella fatica. Come scrive Orr (2018), Middlemarch è una “teopoetica” moderna: un testo che, attraverso la finzione narrativa, costruisce una nuova teologia senza Dio, un’etica della cura e della presenza che sostituisce il dogma con la compassione.
Bibliografia
Orr, M. (2018). Religion in a Secular World: Middlemarch and the Mysticism of the Everyday. In: George Eliot’s Religious Imagination: A Theopoetical Evolution. Evanston, IL: Northwestern University Press.
Kearney, R. (2010). Anatheism: Returning to God After God. New York: Columbia University Press.