Soglie della modernità: Nicholas of Cusa tra crisi del sapere e invenzione dell’uomo

Nicholas of Cusa, pensatore liminare tra Medioevo e modernità, anticipa questioni chiave della letteratura moderna: la crisi dell’identità, la tensione del linguaggio e la scrittura come forma di conoscenza in cerca di verità.

Indice

  1. Modernità e invenzione dell’uomo: una frattura narrata
  2. Il linguaggio come frontiera: tra visione e ineffabilità
  3. La coscienza narrativa e l’instabilità del soggetto
  4. Scrivere per conoscere: la parola come atto metafisico

1. Modernità e invenzione dell’uomo: una frattura narrata

Che cosa significa davvero essere moderni? — ci si chiede, spesso, con leggerezza. Ma per Michael Edward Moore, questa non è una domanda da archivio, da glossario o da dizionario filosofico; è una soglia, una fenditura, una crisi. Nel saggio Modernity, inserito nel volume Nicholas of Cusa and the Kairos of Modernity (Moore, 2013), Moore non si accontenta di delimitare la modernità con una linea sulla mappa del tempo; egli la inquadra come un kairos — un tempo denso, critico, attraversato da tensioni, da rotture, da promesse ancora oscure.

In questa cornice carica di trasformazione, Nicholas of Cusa non appare né come un precursore trionfale né come un ultimo medievale in declino. No — egli è altro. È il pensatore che ascolta il crepitio di un ordine che cede, che osserva le crepe aprirsi sotto i piedi del vecchio mondo e si protende, cauto ma determinato, verso un’idea nuova, più instabile, più rischiosa: quella che l’uomo possa conoscere — sì, conoscere — non attraverso la certezza, ma attraverso la congettura, il dubbio, la meraviglia dell’incompletezza.

Cusano è un uomo in bilico. Da un lato, guarda al cielo, alla visione teologica dell’universo che ancora tiene insieme le sfere e le gerarchie. Dall’altro, abbassa lo sguardo verso la terra, verso il soggetto umano, che inizia a domandarsi chi è, da dove viene, che cosa può sapere. In questo strappo tra alto e basso, tra eternità e tempo, tra Dio e individuo, si intravede già, nitida e fragile, la postura della modernità.

Jules Michelet, nel cuore del XIX secolo, avrebbe definito la modernità come la “scoperta dell’uomo e del mondo” — una frase semplice, eppure vertiginosa. È la stessa tensione che attraverserà la letteratura moderna: l’uomo che si cerca, che si interroga, che si racconta. L’uomo che si perde — e scrive per ritrovarsi. Ed è in questo punto preciso, in questo incrocio tra pensiero e racconto, tra filosofia e narrazione, che Cusano e Moore si toccano, si parlano, si rafforzano a vicenda.

La modernità, dunque, non è solo un capitolo nuovo nella storia delle idee; è una frattura narrativa, un’apertura nel tessuto del tempo, un momento in cui la parola si fa carico di una nuova urgenza — e Cusano, se lo si sa leggere, è uno dei suoi primi narratori.

2. Il linguaggio come frontiera: tra visione e ineffabilità

Nel De Visione Dei, Nicholas of Cusa disegna un’immagine che affascina e inquieta — una visione che si imprime nella mente come un’icona luminosa: Dio come un occhio, un occhio che guarda ogni cosa, da ogni punto, senza mai chiudersi, senza mai distogliersi (Moore, 2013). L’essere umano, così, si scopre osservato. Non visto soltanto — osservato. Senza tregua, senza riparo, senza possibilità di nascondersi. Un’intuizione mistica, certo, ma anche qualcosa di più: una metafora potente, precisa, vertiginosa, del sapere e della scrittura.

Perché scrivere, secondo Cusano, non è solo tracciare segni — è tentare l’impossibile. È nominare ciò che resiste al nome. È costruire un ponte verso l’ineffabile, sapendo — con umiltà, con ostinazione — che quel ponte, forse, non giungerà mai dall’altra parte. Il linguaggio, allora, diventa una frontiera, non uno strumento. Una soglia fragile, provvisoria, affollata di silenzi.

In questo gesto — esitante, spezzato, irriducibile — Cusano si rivela già moderno. Le sue frasi si curvano, si attorcigliano, si rifrangono come luce in una cattedrale. Non costruisce sistemi, no; intreccia immagini. Non definisce; evoca. Moore lo evidenzia chiaramente: la parola, per Cusano, non basta mai. Sempre qualcosa sfugge — e proprio ciò che sfugge è ciò che conta.

Non è forse questa, anche, la consapevolezza che attraversa la grande letteratura del Novecento? In Celan, in Blanchot, in Beckett — quella parola che inciampa, che fallisce, che si ritira, ma che proprio in questo fallimento dice di più. La parola che si ferma sull’orlo del silenzio e, lì, brilla.

La modernità, allora — se vogliamo davvero chiamarla così — nasce anche da questa crisi. Una crisi non solo della fede o della ragione, ma del linguaggio stesso. E Cusano, con la sua scrittura traboccante, con il suo occhio che guarda e si lascia guardare, ne è uno dei primi, straordinari testimoni.


3. La coscienza narrativa e l’instabilità del soggetto

C’è un punto, sottile ma profondo, che attraversa l’intera analisi di Moore (2013) come una vena carsica, silenziosa ma essenziale: la trasformazione della coscienza. Essere moderni, ci ricorda l’autore, non significa semplicemente credere nel progresso — nelle macchine, nella scienza, nei lumi. No, essere moderni significa vivere una frattura del sé. Una rottura, talvolta impercettibile, talvolta dolorosa, che separa l’io da se stesso.

La modernità non costruisce soggetti; li interroga. Non li unifica; li moltiplica. Nasce così una coscienza narrativa, mobile, sfaccettata — una coscienza che non si dà in quanto fondamento, ma in quanto racconto. Un racconto mai concluso, spesso contraddittorio, sempre provvisorio. E Nicholas of Cusa, con la sua insistenza sull’incompletezza, sulla congettura, sul non-sapere che è già sapere, ci conduce proprio in questa direzione. L’uomo, dice Cusano, non è più il centro immobile del cosmo; è un essere che si racconta, continuamente, nel vuoto che separa il finito dall’infinito.

È qui che la letteratura moderna prende forma. È qui che l’io — fragile, incerto, plurale — si fa protagonista. In Musil, in Proust, in Woolf, in Kafka, la soggettività non è un dato, ma una lotta. Una molteplicità di voci si accavalla, si rincorre, si disgrega. Non c’è più unità, ma tensione. Non c’è più sintesi, ma stratificazione.

Cusano non parla il linguaggio del romanzo — è vero. Ma ne abita già l’inquietudine. Scrive da un interno instabile, da una soglia dove ogni verità è congetturale, ogni conoscenza è rischio. E proprio in questa instabilità, in questa oscillazione mai pacificata, si nasconde una nuova forma di lucidità: quella di chi sa che solo nel raccontare si può sperare di comprendere.

Così, la letteratura moderna eredita da Cusano qualcosa di più profondo di un’idea: eredita un’esperienza del pensiero. Un modo di essere nel mondo — precario, interrogante, narrante. E come Cusano reinventa Dio a colpi di paradosso e di metafora, così lo scrittore moderno reinventa il mondo — non per dominarlo, ma per abitarlo.

4. Scrivere per conoscere: la parola come atto metafisico

Scrivere, per Cusano, non è mai un esercizio formale. È un atto filosofico e spirituale. I suoi testi non sono trattati chiusi, ma dialoghi aperti, pieni di domande, immagini, contraddizioni. In questo senso, Moore (2013) ci propone una lettura cruciale: Cusano scrive per conoscere, non per spiegare. La sua docta ignorantia non è ignoranza passiva, ma apertura attiva al mistero. Una posizione che riecheggia nei grandi scrittori del pensiero: da Rilke a Borges, da Simone Weil a Coetzee.

La parola diventa allora un luogo di trasformazione. Non solo segno, ma gesto. Non solo comunicazione, ma presenza. È il cuore stesso della modernità letteraria: una parola che cerca, che inciampa, che si espone. Cusano non offre risposte, ma mette in scena l’esperienza del pensiero che si scrive. È in questo che si rivela straordinariamente attuale. Perché oggi, come allora, scrivere significa affrontare l’ignoto, abitare la soglia tra ciò che sappiamo e ciò che non sapremo mai.


Riferimenti bibliografici

Moore, M.E. (2013). Nicholas of Cusa and the Kairos of Modernity: Cassirer, Gadamer, Blumenberg. Punctum Books.

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