La narrazione è il cuore pulsante della letteratura e del cinema tradizionale, ma cosa accade quando viene messa in discussione? Questo articolo esplora le riflessioni del saggio “The Spectre of Narrative” di Paul Taberham (2018), offrendo spunti critici per scrittori e editor interessati a comprendere e, se necessario, decostruire le forme canoniche del racconto. Dal rifiuto radicale della linearità alle forme alternative di coinvolgimento dello spettatore/lettore, passando per gli strumenti cognitivi con cui interpretiamo il mondo, analizziamo come il cinema d’avanguardia possa ispirare una nuova sensibilità narrativa.
Indice:
- Quando la narrazione diventa uno spettro
- Cinema d’avanguardia e strategie contro-narrative
- La narrazione come forma cognitiva
- Spunti per scrittori: che cosa possiamo imparare dall’avanguardia?
1. Quando la narrazione diventa uno spettro
Nel saggio The Spectre of Narrative, Paul Taberham apre con una citazione che suona come un avvertimento – o forse un presagio – da parte di Hollis Frampton: “A specter is haunting the cinema: the specter of narrative.” Una frase che vibra di tensione, che evoca l’immagine di un’entità sospesa tra il visibile e l’invisibile, qualcosa che si aggira inquieta nei corridoi bui della forma cinematografica. Un’immagine potente, carica di ambiguità, che introduce una domanda importante per chi lavora con le storie, e non solo per chi le guarda o le ascolta: la narrazione è un dono oppure una prigione? Una risorsa generativa, oppure una trappola culturale? E ancora: possiamo fidarci delle storie che raccontiamo – o che ci raccontano?
Nel cinema commerciale, la struttura narrativa lineare – con un inizio stabile, uno svolgimento logico e una fine ordinatrice – viene spesso considerata l’unica via possibile. Non solo una convenzione, ma una necessità. Le tre unità aristoteliche, riformulate nel linguaggio dello storytelling contemporaneo, sono diventate lo scheletro invisibile che sorregge tutto: sceneggiature, pitch, sinossi, persino trailer. È la grammatica standard, e come ogni grammatica – proprio come ogni grammatica – tende a nascondere le sue regole dietro una presunta naturalità.
Ma il cinema d’avanguardia non accetta mai le regole senza discuterle. Anzi, spesso le smonta pezzo per pezzo, come si fa con un meccanismo arrugginito o un orologio antico che non segna più il tempo. In questo contesto, la narrazione può diventare un ostacolo, un vincolo, un corpo estraneo da espellere o da ridefinire radicalmente. Per alcuni – come Peter Gidal o Malcolm Le Grice – la linearità narrativa non è solo una forma, ma una forma ideologica: un sistema che condiziona la percezione, che canalizza l’esperienza verso una sola interpretazione possibile, soffocando l’ambiguità, la molteplicità, la complessità (Taberham 2018).
Altri autori, più sfumati ma non meno critici, propongono invece di “riformulare” la narrazione, di tenerla in vita ma sotto osservazione costante – come un vecchio attore che ha calcato troppo a lungo la scena e che ora va reinquadrato alla luce di nuove sensibilità. In questo senso, la narrazione diventa davvero uno spettro: una presenza che si aggira tra le immagini e le sequenze, che c’è ma non si vede, che si insinua anche dove pensavamo di averla bandita (Taberham 2018).
Per chi scrive – per chi costruisce mondi con le parole, tesse trame, plasma personaggi e li guida attraverso eventi – tutto questo non è un gioco teorico. È un invito alla riflessione profonda. È un suggerimento – sottile ma insistente – a guardare alla trama non più come a una gabbia dorata, né come a una formula magica da ripetere a memoria, ma come a un campo di forze, un territorio aperto in cui si possono fare esperimenti, deviazioni, errori fertili. Scrivere, allora, non è solo raccontare “che cosa succede”, ma decidere come farlo accadere, e perché.
2. Cinema d’avanguardia e strategie contro-narrative
Nel suo saggio, Paul Taberham esplora una serie di esempi tratti dal cinema sperimentale per mostrare – con attenzione minuziosa e spirito analitico – come la narrazione possa essere non solo evitata o negata, ma anche trasformata, deformata, reinventata. Ogni film analizzato rappresenta una variazione sul tema, un’esplorazione delle possibilità che emergono quando si smette di trattare la struttura narrativa come un dogma e si comincia invece a vederla per quello che è: uno strumento malleabile, discutibile, talvolta persino sospetto.
Nel cortometraggio The Life and Death of 9413: A Hollywood Extra (1928), realizzato da Robert Florey e Slavko Vorkapich, la trama – pur riconoscibile – è come incastonata in una cornice grottesca, quasi caricaturale. Il protagonista attraversa un arco narrativo definito, ma ogni passo del suo percorso è deformato da un’estetica surreale: maschere sproporzionate, miniature disturbanti, sovrimpressioni che diluiscono i contorni del reale. Lo stile visivo non accompagna la narrazione, ma la interroga, la deforma, la svuota. E così, la parodia della scalata hollywoodiana – dal sogno alla morte dell’identità – assume toni allegorici e dissacranti (Taberham 2018).
Ben più estremo – e deliberatamente oscuro – è Lucifer Rising (1980) di Kenneth Anger, film che si muove tra il sacro e l’incomprensibile, tra l’esoterico e il visionario. Qui la narrazione non è assente, ma è nascosta sotto strati di simbolismo occulto: rituali, personaggi archetipici, paesaggi alienanti. La chiave interpretativa – la mitologia thelemica – non viene mai esplicitata. Anzi, è come se Anger volesse premiare soltanto lo spettatore “iniziato”, quello che conosce i codici, i simboli, i testi. Ne risulta una sorta di narrazione iniziatica, una storia che si nega alla lettura convenzionale e che resiste all’interpretazione superficiale (Taberham 2018). Una storia che, per essere compresa, va decifrata.
Infine, Valse Triste (1977) di Bruce Conner offre un’altra modalità ancora: qui la narrazione si fa suggestione, atmosfera, eco lontana. Il film si compone di spezzoni di found footage – filmati d’archivio, immagini recuperate, frammenti del passato – montati con sapienza quasi musicale. Non ci sono eventi che si susseguono in modo ordinato; non c’è un protagonista, non c’è una progressione causale. Ma c’è, invece, una malinconia che attraversa ogni inquadratura, un sentimento che si fa racconto – o che almeno lo evoca. Le immagini funzionano come metonimie, simboli vaghi, tasselli sparsi di una storia che non verrà mai detta del tutto, e proprio per questo risuona più forte (Taberham 2018).
Che cosa ci dicono, allora, questi esempi? Che la narrazione, nel suo senso più profondo, non è solo una sequenza di eventi. È anche – forse soprattutto – un modo di evocare significato. Per gli scrittori, questo significa aprire la porta a un uso più libero, più consapevole e più poetico delle forme narrative. Non conta solo “che cosa succede”, ma – con forza raddoppiata – come lo si mostra, come lo si evoca, come lo si fa sentire. E forse, alla fine, è proprio lì che comincia la vera potenza della narrazione.
3. La narrazione come forma cognitiva
Una delle sezioni più interessanti del saggio di Taberham riguarda la narrazione come fenomeno cognitivo. Secondo la cognitive narratology, narrare non è solo un modo per raccontare storie, ma è un modo di pensare, una strategia che gli esseri umani sviluppano per dare senso al mondo (Taberham 2018).
Gli spettatori (e i lettori) utilizzano schemi mentali preesistenti per interpretare ciò che vedono. Costruiamo inferenze, anticipiamo conseguenze, riordiniamo eventi non lineari e cerchiamo connessioni causali anche dove non sono esplicite. Questo processo è attivo e continuo, anche nei casi in cui il testo non fornisce tutti gli elementi.
Ciò spiega perché la narrazione è così diffusa nelle culture: è uno strumento adattivo, che ci permette di trasmettere esperienze e apprendere in modo efficace. Ma proprio per questa sua “naturalità”, la narrazione può diventare invisibile, e quindi pericolosa, se accettata in modo acritico. Ecco perché l’avanguardia ne fa un bersaglio (Taberham 2018).
Per chi si occupa di editing, è fondamentale capire come la narrativa lavori sulla mente del lettore. Intervenire su un testo non significa solo “aggiustare la trama”, ma anche capire quali sono gli schemi cognitivi su cui il testo si appoggia, e se è il caso di sfidarli.
4. Spunti per scrittori: che cosa possiamo imparare dall’avanguardia?
Che cosa può apprendere uno scrittore o un editor dal cinema d’avanguardia? Prima di tutto, la consapevolezza che la narrazione è una scelta, non un dato di fatto. Decidere di raccontare una storia in modo lineare, con personaggi ben definiti e una progressione causale, è una convenzione efficace, ma non obbligatoria (Taberham 2018).
Il cinema sperimentale ci mostra almeno tre modalità alternative da esplorare anche nella scrittura:
- Narrativa allusiva: come in Anger, si può costruire un racconto in cui la coerenza emerge solo per chi possiede determinate chiavi di lettura. Questo apre la strada alla scrittura simbolica, mitica, iniziatica.
- Narrativa metaforica: come in Conner, si possono usare immagini (o scene, o frasi) che non raccontano ma evocano. Il lettore ricostruisce la storia in modo attivo, interpretando i segnali.
- Narrativa decostruita: come in Deren o Le Grice, si può agire sulla forma del racconto per mettere in crisi la sua autorità: loop temporali, frammenti incoerenti, voci narranti inaffidabili.
Queste strategie possono sembrare “difficili”, ma non sono fine a se stesse. Servono a spostare l’attenzione dal consumo passivo alla partecipazione attiva del lettore/spettatore. Per chi lavora con le storie, sono strumenti preziosi per allargare il campo delle possibilità narrative.
Bibliografia:
Taberham, P. (2018). The Spectre of Narrative, in Lessons in Perception: The Avant-Garde Filmmaker as Practical Psychologist. Oxford: Berghahn Books.