La città e l’immaginazione: la macchina combinatoria di Calvino e la sfida dell’urbanistica narrativa

Attraverso l’analisi del romanzo Le città invisibili di Italo Calvino, Sophia Psarra esplora il potere dell’immaginazione come macchina combinatoria capace di generare mondi narrativi e, al contempo, riflessioni sulla città reale. Il testo propone un modello per ripensare l’architettura e l’urbanistica contemporanea.

Indice

  1. Venezia come matrice: la città reale e le città possibili
  2. Calvino e l’Oulipo: letteratura come sistema combinatorio
  3. Struttura, simmetria e molteplicità: la grammatica delle città
  4. Utopia, caos e resilienza: la città come atto interpretativo

1. Venezia come matrice: la città reale e le città possibili

Nel capitolo Story-craft: The imagination as combinatorial machine in Italo Calvino’s Invisible Cities, incluso nel volume Venice Variations, Sophia Psarra (2018) propone un’analisi multidimensionale e sorprendentemente fertile, in cui si fondono – in un tutt’uno rigoroso e visionario – critica letteraria, teoria urbana e matematica combinatoria. L’autrice, partendo dal caso emblematico di Venezia, città storica, simbolica e insieme onirica, mostra come Italo Calvino la utilizzi non tanto come semplice sfondo, quanto come una matrice generativa, un dispositivo narrativo in grado di moltiplicarsi in 55 città immaginarie – città che non sono altro che riflessi, ombre, proiezioni deformate o idealizzate della Serenissima. Venezia, dunque, non come una città fra le altre, ma come la città che contiene tutte le altre; non come modello statico, ma come organismo narrativo in continua mutazione.

Venezia, in Calvino, non è mai un’entità unica e stabile: si sdoppia, si rifrange, si dissolve e si ricompone in mille variazioni – ognuna coerente con sé stessa, ognuna diversa, ognuna capace di richiamare, nella memoria e nell’immaginazione, un’idea urbana che muta di volta in volta, come se ogni racconto ne rivelasse un frammento nascosto, un’ombra, una possibilità alternativa. Come scrive Psarra (2018), Marco Polo racconta a Kublai Khan città che non sono mai del tutto nuove, eppure non sono mai del tutto uguali; sono, piuttosto, “modulazioni” continue della stessa idea, variazioni su un tema antico eppure vivo – un tema che pulsa, si deforma, si rinnova.

Venezia, nella lettura di Psarra, si offre come un autentico “catalizzatore dell’immaginazione” – un’idea che, tra l’altro, Calvino stesso riprende nei suoi Sei proposte per il prossimo millennio, parlando dell’esigenza di combinare leggerezza e molteplicità. Ma c’è di più. Venezia è anche – e soprattutto – un archetipo urbano: sospesa sull’acqua, sfuggente e al tempo stesso familiare, anfibia, labirintica, tanto concreta nei suoi marmi quanto evanescente nei suoi riflessi. Essa incarna perfettamente la fusione tra città vissuta e città narrata, tra urbanistica tangibile e immaginazione simbolica – tra il pieno e il vuoto, il solido e il liquido, la presenza e la memoria.

Calvino, per bocca del suo viaggiatore veneziano, ci mostra che ogni città visibile custodisce – in silenzio o in segreto – un’idea invisibile, un principio generatore che la informa, la trasforma e, in qualche misura, la supera. Le città non sono meri luoghi – sono storie, visioni, desideri, paure. In questo senso, il testo di Psarra ci invita a leggere Le città invisibili non solo come un’opera letteraria, ma come un modello teorico, quasi un manifesto implicito per l’architettura contemporanea: un manifesto che non parte dalla forma, bensì dalla narrazione; non dal disegno, ma dalla variazione; non dalla pietra, ma dalla memoria.

Chi progetta città – sembra dirci Calvino – dovrebbe anzitutto saperle raccontare. E chi le racconta, se vuole davvero farle vivere, deve sapere che ogni racconto è anche un atto di costruzione. La città, dunque, non come dato concluso, ma come racconto in divenire – e in questo racconto, Venezia, l’originaria, la prima, la reale, non cessa mai di parlare attraverso le sue metamorfosi.


2. Calvino e l’Oulipo: letteratura come sistema combinatorio

Italo Calvino fu membro dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle), un collettivo di scrittori, poeti e matematici che, tra provocazione e rigore, tra gioco e geometria, concepiva la letteratura come un laboratorio di potenzialità ancora non scritte – una vera e propria officina della forma e del pensiero. Per gli oulipiani, la libertà non consisteva nell’assenza di regole, ma nella loro moltiplicazione; non nell’eliminare i vincoli, ma nell’imporne di nuovi, sempre diversi – e, talvolta, anche assurdi. Da questi vincoli – come accade nelle macchine che producono infinite varianti di una melodia o di un disegno – scaturiva il potere creativo. Ecco perché Le città invisibili non è solo un romanzo, ma un sistema generativo; non una storia, ma un algoritmo narrativo.

In quest’opera – raffinata, visionaria, matematica – la narrazione è organizzata secondo una struttura precisa, persino ossessiva nella sua regolarità: 11 categorie tematiche (tra cui “Città e memoria”, “Città e desiderio”, “Città continue”…), 9 capitoli, 55 descrizioni di città, intervallate da 18 dialoghi filosofici tra Marco Polo e Kublai Khan. Come dimostra con chiarezza Psarra (2018), questa architettura rigorosa non è sterile – al contrario, è fertile, flessibile, sorprendentemente generativa. Le città si moltiplicano in simmetrie, si rincorrono in cicli, si intrecciano in itinerari alternativi. È come se l’intero libro fosse un tessuto musicale, in cui ogni nota richiama un’altra, ogni silenzio è parte del ritmo complessivo. E il lettore, proprio come un musicista o un esploratore, può scegliere la propria traiettoria – avanti, indietro, in diagonale – dentro questo labirinto di parole.

L’influenza di alcune figure intellettuali è evidente e stratificata – come mattoni impilati con cura in una casa che non vuole essere terminata. Raymond Queneau, ad esempio, fu per Calvino un maestro di strutture combinatorie e ironia linguistica. Jorge Luis Borges – l’architetto dei labirinti e degli specchi, delle biblioteche infinite e dei testi impossibili – rappresenta invece un modello di economia narrativa, in cui ogni deviazione è una scelta esatta, ogni biforcazione è un mondo possibile. E poi Lucrezio – sì, proprio lui, il poeta-filosofo latino – con la sua idea del clinamen, la deviazione imprevedibile degli atomi: da un piccolissimo scarto, un intero universo può cambiare. Per Calvino, questa deviazione diventa una poetica: il racconto non come descrizione del reale, ma come apertura verso il possibile – verso ciò che potrebbe essere, verso ciò che non è ancora accaduto ma potrebbe accadere, se solo sapessimo raccontarlo.

E non è questa, forse, la funzione più alta della letteratura? Non spiegare il mondo com’è, ma suggerire – con garbo, con ingegno, con precisione – il mondo che potrebbe essere. Non dare risposte, ma porre domande. Non chiudere il significato, ma moltiplicarlo. Come sottolinea Psarra (2018), Le città invisibili non mira a descrivere la realtà così com’è, con le sue pietre, le sue strade e i suoi confini – mira, piuttosto, a proporre una grammatica del possibile, una sintassi dell’immaginazione, una topologia del pensiero narrativo.

3. Struttura, simmetria e molteplicità: la grammatica delle città

Tra le molte intuizioni proposte da Psarra (2018), una delle più sorprendenti – e forse anche una delle più illuminanti – riguarda l’analisi geometrico-combinatoria della struttura interna del libro. Le città invisibili, afferma l’autrice, non è semplicemente una raccolta ordinata di racconti urbani, né un’antologia poetica di visioni architettoniche; è, piuttosto, un organismo narrativo, una costruzione matematica, un congegno retorico, strutturato con la precisione e l’eleganza di una figura geometrica: un diamante. Sì, proprio un diamante – sfaccettato, lucente, tagliato con cura – in cui ogni città occupa una posizione precisa, ogni racconto è un nodo in una rete di corrispondenze, ogni tema è una linea che attraversa il testo e lo tiene insieme, come i fili in un ricamo, come le travi in un edificio.

Le città non si susseguono in modo casuale, né lineare. Esse si dispongono – come tessere di un mosaico o stanze di una casa a specchi – secondo una matrice ricorsiva, in cui le simmetrie si rincorrono e si sovrappongono, gli assi si incrociano, le rotazioni producono nuove prospettive e le traduzioni concettuali generano combinazioni sempre nuove. Questa disposizione permette, anzi incoraggia, una lettura non lineare: il lettore – come un flâneur, come un viaggiatore del tempo e dello spazio – può attraversare il testo seguendo traiettorie personali, deviazioni improvvise, percorsi circolari o diagonali. Il libro non è un percorso obbligato, ma una mappa mutevole, un labirinto gentile.

Ma non è tutto. La simmetria è anche semantica – e qui la scrittura di Calvino assume, per certi versi, quella sottile teatralità visiva che Dickens sapeva distribuire sulle sue pagine: ogni personaggio, ogni scenario, ogni oggetto sembrava rispecchiarne un altro, in una danza di echi e riflessi. Così, anche le città calviniane si specchiano, si sdoppiano, si ribaltano. Vi sono città rarefatte, quasi disincarnate – come Armilla, composta solo da tubi e vuoti; città biforcate – come Zobeide, nate dai sogni di uomini diversi che inseguono la stessa figura; città cicliche – come Sophronia, in cui metà della città scompare periodicamente, per poi tornare come se nulla fosse; e ancora, città che si contengono a vicenda – come Fedora, in cui una sala espone decine di modelli in scala della città che avrebbe potuto essere, che avrebbe potuto diventare, che forse sarà. Ogni città è una metamorfosi, ogni descrizione è una variazione.

Ecco allora che Le città invisibili smette di essere una semplice raccolta di fantasie urbane e si trasforma – con grazia ma anche con rigore – in una forma implicita di teoria della città. Non una teoria astratta, rigida, normativa – ma una teoria narrativa, fluida, poetica. Calvino ci mostra che la città è un linguaggio; e come ogni linguaggio, si fonda su regole, eccezioni, inversioni, risonanze. La città è una grammatica vivente, fatta di spazi, percorsi, soglie, ricordi – e ogni sua parte può essere nominata, trasformata, reinventata. In questo senso, la città è ciò che si racconta di essa – e il racconto, a sua volta, diventa progetto urbano, gesto fondativo, forma di conoscenza.

4. Utopia, caos e resilienza: la città come atto interpretativo

Nella parte conclusiva del suo studio, Sophia Psarra (2018) tocca una questione profonda e, in un certo senso, vertiginosa: Le città invisibili come meditazione narrativa sul confine – mai del tutto netto, mai davvero stabile – tra utopia e inferno. È nell’ultimo, intenso dialogo tra Marco Polo e Kublai Khan che il senso ultimo dell’opera si condensa in una formula apparentemente semplice, ma potentemente evocativa: «Bisogna saper riconoscere ciò che, in mezzo all’inferno, non è inferno. E farlo durare, e dargli spazio». Questa non è solo una riflessione poetica – è un manifesto etico, una visione politica, una grammatica per abitare il mondo. Per Calvino – e Psarra ce lo ricorda con lucidità – la letteratura ha il compito di illuminare ciò che resiste al disordine, ciò che brilla nel caos, ciò che può ancora essere ricombinato per generare bellezza, senso, alternativa.

E qui la città non è più soltanto uno scenario o un oggetto di descrizione; diventa soggetto e metafora, materia viva. In un mondo che tende alla frammentazione – tra disuguaglianze, cementificazioni, espansioni indistinte – la città è il luogo in cui si gioca la nostra capacità di interpretare, di ricostruire, di immaginare. Calvino non offre soluzioni architettoniche, né propone piani regolatori – ma ci invita, con la grazia del poeta e la precisione del matematico, a esercitare uno sguardo vigile, critico, curioso. A leggere il mondo – e a riscriverlo, a nostra volta.

La struttura combinatoria dell’opera – che Psarra analizza in modo rigoroso e acuto – è in sé un messaggio: la molteplicità non è disordine, non è confusione. È valore. È ricchezza. È potenziale. Come in un romanzo di Dickens, dove le voci si sovrappongono, i destini si intrecciano, e ogni personaggio – anche il più marginale – ha una storia da raccontare, così anche Le città invisibili ci consegna una molteplicità che non va risolta, ma attraversata. L’immaginazione, come la città, non è mai un sistema chiuso – è una rete aperta di significati in movimento, di storie che si ricombinano, di segni che si reinterpretano.

Attraverso la ripetizione, la variazione, la trasposizione – strumenti propri della musica, della matematica e della poesia – l’opera ci insegna che il significato non è qualcosa che si possiede, ma qualcosa che si costruisce. Non è qualcosa che si impone, ma qualcosa che si ascolta. In questo senso, Le città invisibili si rivela come un modello epistemologico radicale: ci mostra che conoscere il mondo – e, più ancora, trasformarlo – significa raccontarlo in modi nuovi. Rileggerlo. Ridisegnarlo. Rinarrarlo.

E forse è per questo che Calvino, con una semplicità che disarma e un’eleganza che resiste al tempo, ci lascia un’ultima lezione, una frase che – come un sussurro tra le rovine – accompagna ogni lettore alla fine del viaggio: «Non è la voce che comanda la storia, è l’orecchio». Perché ascoltare – davvero – è già un atto di creazione. Perché da ciò che ascoltiamo, possiamo – forse dobbiamo – ricominciare.

Bibliografia

Psarra, S. (2018) ‘Story-craft: The imagination as combinatorial machine in Italo Calvino’s Invisible Cities‘, in Venice Variations: Tracing the Architectural Imagination, UCL Press, pp. 138-163.

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