Le ultime parole delle vittime, spesso considerate indizi risolutivi nei gialli, sono davvero affidabili? Guthke analizza come la narrativa poliziesca giochi con la loro ambiguità, tra rivelazione autentica e sofisticata strategia di depistaggio.
Indice
- Le ultime parole: verità legale o artificio letterario?
- L’ambiguità dell’indizio perfetto: dal realismo all’ironia
- Una tradizione che si autodissolve: il cliché come trappola narrativa
- Il valore culturale della menzogna in punto di morte
Le ultime parole: verità legale o artificio letterario?
È difficile immaginare un altro elemento narrativo che incarni meglio la tensione fra verità e inganno quanto le ultime parole di una vittima in un romanzo poliziesco. Karl S. Guthke, nel suo saggio Revelation or Deceit? Last Words in Detective Novels, affronta questo nodo centrale partendo da un’osservazione suggestiva: ciò che nei tribunali anglosassoni ha dignità giuridica — la dying declaration, ovvero la testimonianza in punto di morte — si trasforma nella narrativa in un elemento ambiguo, talvolta ingannevole, talvolta risolutivo, ma raramente neutro.
Nel diritto britannico e statunitense, una dichiarazione fatta da chi sa di stare per morire ha valore legale anche in assenza del giuramento formale. Il principio, sintetizzato nella massima latina nemo moriturus praesumitur mentiri, si basa sull’assunto che chi sta per affrontare il giudizio divino non abbia motivo di mentire. Eppure, come sottolinea Guthke con sottile ironia, la narrativa gialla si diverte a sovvertire questa stessa fiducia: ciò che dovrebbe essere chiaro diventa confuso, ciò che dovrebbe svelare la verità si rivela spesso il primo indizio del grande inganno.
2. L’ambiguità dell’indizio perfetto: dal realismo all’ironia
Guthke esplora una vasta gamma di romanzi gialli, da Edgar Allan Poe ad Agatha Christie, passando per S.S. Van Dine, G.K. Chesterton, Philip MacDonald e Peter Handke, per mostrare come l’impiego narrativo delle ultime parole sia stato tutto fuorché statico. Al contrario, esso riflette lo sviluppo e le tensioni interne del genere poliziesco, che — nato sotto il segno della razionalità e dell’ordine — non ha mai smesso di mettere in discussione i propri stessi strumenti.
Nelle fasi iniziali della detective fiction, le dying words assumono un ruolo centrale: sono indizi autentici, talvolta enigmatici, ma sempre concepiti per essere decifrati logicamente, in perfetta sintonia con l’epistemologia deduttiva del giallo classico. Conan Doyle, ad esempio, in The Speckled Band e The Lion’s Mane affida alle ultime parole delle vittime — “the speckled band” e “the Lion’s Mane” — il compito di orientare l’intera indagine. In entrambi i casi, il detective scopre che si tratta non di esseri umani ma di animali letali: un serpente e una medusa. Come nota Guthke, “in each story it is the last word of the victim that provides the title” (Guthke, 2018, p. 298). L’indizio, in questi contesti, è “utterly irrelevant and unintelligible, of course” (p. 298), almeno in apparenza, ma finisce col condurre alla verità tramite una catena di deduzioni coerenti.
Questo modello, tuttavia, inizia presto a scricchiolare. Già agli inizi del XX secolo, alcuni autori introducono elementi di disturbo epistemologico all’interno della struttura apparentemente cristallina del romanzo poliziesco. Agatha Christie, pioniera dell’autoironia letteraria, lo fa in Why Didn’t They Ask Evans? (1934), dove l’enigmatica domanda morente, lungi dal chiarire, complica e intralcia la ricerca della verità. La frase appare “trivial”, come dicono i personaggi stessi (p. 301), e viene inizialmente sottovalutata: “Whether or not the key to the situation is the phrase ‘Why didn’t they ask Evans?’ doesn’t seem to me to matter much” (p. 302). Eppure, sarà proprio quella domanda, all’apparenza priva di senso, a rivelarsi decisiva — ma solo alla fine, e più come ironia strutturale che come vero e proprio indizio.
Guthke sottolinea come questo uso narrativo rappresenti una svolta metanarrativa: non siamo più nell’ambito della scoperta oggettiva, bensì in quello dell’ambiguità semiotica. Invece di chiarire, le ultime parole generano nuove domande. Esse assumono la funzione di “red herrings”, falsi indizi che deviano l’attenzione del lettore. In Death on the Nile, ad esempio, la vittima riesce a scrivere la lettera “J” col proprio sangue, ma, come rivela Poirot con sarcasmo: “It is now, indeed, a little vieux jeu! It leads one to suspect that our murderer is — old-fashioned!” (p. 310). L’iniziale sembra accusare Jacqueline de Bellefort, ma in realtà è un depistaggio deliberato, orchestrato dal colpevole per manipolare la scena del crimine e orientare le indagini. Guthke coglie il punto con chiarezza: “the supposed last word has no real function at all, not even that of a red herring as Poirot sees through it right away” (p. 311).
Queste dinamiche evidenziano un cambiamento radicale nel modo in cui il genere poliziesco gestisce l’indizio linguistico. Se, nei primi esempi, la dying declaration era un codice da decifrare, nelle opere più mature diventa una mossa strategica del narratore per sfidare le aspettative del lettore. È un doppio gioco letterario che si muove tra due poli opposti: da un lato la promessa di rivelazione, dall’altro la consapevolezza che la verità, come scrive Guthke, può essere “not probable, but true — or what is probable may not be true” (p. 298, riferendosi a Boileau). Il lettore viene così trascinato in un gioco epistemico, in cui la familiarità con le convenzioni del genere viene sfruttata non per confermarle, ma per smontarle.
Infine, è significativo come Guthke colleghi questi sviluppi letterari all’evoluzione culturale e sociale della percezione della verità stessa. In una società sempre più pluralista e scettica, l’idea che il morente dica necessariamente la verità — fondamento della dying declaration legale — appare ideologicamente fragile: “Law courts today are becoming aware, of course, of just how questionable, how ideologically biased, this assumption is in multicultural social contexts” (p. 292). È come se il romanzo giallo, nella sua evoluzione, avesse anticipato — e poi tematizzato — questa crisi di fiducia nella verità assoluta, persino quella che scaturisce dalle labbra di chi sta per morire.
3. Una tradizione che si autodissolve: il cliché come trappola narrativa
A partire dagli anni ’30, il romanzo giallo comincia a mostrare una consapevolezza critica verso i propri cliché. L’ultima parola non è più il punto di partenza per un’indagine, ma un meccanismo sospetto, che spesso serve solo a confondere lettore e detective. In The Mysterious Affair at Styles, Christie finge di usare una dichiarazione morente (“Alfred… Alfred…”) per guidare l’indagine, ma la soluzione finale ridimensiona il valore dell’indizio, suggerendo che le apparenze ingannano sempre — anche quelle dettate dall’urgenza della morte.
Con il progredire del secolo, il cliché dell’ultima parola si trasforma in un esperimento di smontaggio narrativo. È il caso di Der Hausierer di Peter Handke, dove la ricerca del colpevole e il significato dell’ultima parola (“Nein!”) falliscono completamente: non portano alla verità ma al caos. Un’ulteriore conferma che il genere giallo, per continuare a esistere, deve imparare a criticare se stesso.
Nei romanzi degli anni Ottanta, come Deadfall di Bill Pronzini, le ultime parole (“Deadfall”) diventano un motore strutturale della narrazione: tornano nei sogni del detective, nei dialoghi, nelle ipotesi investigative. Ma ormai l’intero meccanismo è reso trasparente — non si crede più davvero nella funzione rivelatrice dell’indizio, bensì nel piacere del gioco narrativo che esso consente.
4. Il valore culturale della menzogna in punto di morte
Il punto più interessante dell’analisi di Guthke è il ribaltamento del dogma morale che associa la morte alla verità. Se il diritto assume che il morente non menta, il romanzo poliziesco postmoderno si diverte a suggerire il contrario: si può mentire anche con l’ultima parola, magari per vendetta, per amore, per proteggere qualcuno o per confondere tutti. L’ultima parola diventa allora non una rivelazione, ma un atto performativo, un’azione retorica che ha effetti nel mondo — e nella mente del lettore.
Così, in The Pale Horse, Christie inserisce una confessione sul letto di morte che allude a una misteriosa “cavalla”, apparentemente un riferimento all’ippica ma in realtà una citazione biblica dell’Apocalisse. L’intero enigma ruota attorno all’interpretazione linguistica, alla capacità di cogliere il simbolismo nascosto. Ecco allora che la morte, nella narrativa, non è il luogo della sincerità ma il teatro della finzione suprema.
Alla fine, Guthke ci propone una visione del romanzo poliziesco come laboratorio etico-narrativo: ciò che nella vita dovrebbe rappresentare il sigillo della verità — la dichiarazione finale — si trasforma nella finzione letteraria in una macchina retorica, una forma di eloquenza postuma, un’ultima beffa capace di ingannare tanto il detective quanto il lettore.
Riferimento bibliografico
Guthke, K. S. (2018) Revelation or Deceit? Last Words in Detective Novels. In: Exploring the Interior: Essays on Literary and Cultural History.