Tra stelle e terra: miti, trasmissione e forme letterarie nelle tradizioni native americane

Gladys A. Reichard analizza tre miti fondamentali dei popoli nativi americani — Star-Husband, Lodge-Boy e Earth-Diver — esaminando struttura narrativa, personaggi simbolici e diffusione geografica per comprenderne l’evoluzione culturale.

Indice

  1. L’essenza del mito: struttura narrativa e personaggi
  2. Tipologie letterarie e stile: tra oralità e costruzione poetica
  3. Percorsi di trasmissione: come viaggiano i miti
  4. Oltre la diffusione: adattamento, sincretismo e ritualizzazione

1. L’essenza del mito: struttura narrativa e personaggi

Nel saggio Literary Types and Dissemination of Myths (1921), Gladys A. Reichard affronta con attenzione quasi filologica l’analisi comparata di tre miti ampiamente diffusi nel continente nordamericano: il mito del Marito-Stella, quello dei gemelli Lodge-Boy e Thrown-Away, e infine il mito dell’Earth-Diver, ovvero il Tuffatore della Terra. L’indagine prende le mosse da un assunto fondamentale: per i popoli nativi dell’America settentrionale, il mito non è affatto una semplice narrazione simbolica, né un gioco di invenzione popolare; è, piuttosto, una forma di sapere profondo, trasmesso oralmente, che si colloca in un tempo anteriore all’ordine attuale del mondo, quando l’umanità e l’animalità, il cielo e la terra, la norma e l’eccezione convivevano ancora in un’unica dimensione originaria, vibrante e permeabile.

Reichard scompone con metodo ciascuna delle tre narrazioni in episodi, motivi, sequenze e atti rituali, creando un quadro sistematico delle varianti registrate tra più di cinquanta tribù del continente. Le trame si moltiplicano, ma i nodi centrali rimangono. Così, in molte versioni del mito del Marito-Stella, una donna sale nel cielo per sposare un essere celeste, ma infrange un divieto e viene punita con la caduta. In altre, un bambino gettato via alla nascita sopravvive in modo miracoloso e ritorna come eroe, spesso per vendicare un’ingiustizia, spesso per fondare un ordine. Nell’Earth-Diver, infine, una piccola creatura—il topo muschiato, umile tra i viventi—riemerge con una zolla di fango dalle acque primordiali e rende possibile la creazione della terra. Storie diverse, luoghi diversi, creature diverse, eppure, come scrive Reichard, «la struttura narrativa è straordinariamente uniforme» (Reichard, 1921, p. 271).

Queste storie, pur diversificate nei dettagli, sono fondate su un impianto ricorrente e riconoscibile: una nascita o un’origine straordinaria, una trasgressione o un atto liminale, una prova di sopravvivenza, una trasformazione finale che conduce all’eroizzazione o alla rinascita del mondo. Reichard osserva che «ogni versione mantiene i suoi episodi essenziali, benché gli elementi narrativi vengano spesso sostituiti, invertiti o sviluppati in modo differente» (Reichard, 1921, p. 270). Tale coerenza, che emerge nonostante le distanze geografiche e culturali, lascia intendere un processo di trasmissione complesso, dove ciò che conta non è tanto la fedeltà alla forma, quanto la persistenza della funzione simbolica.

Come un naturalista dell’immaginario, Reichard si sofferma sui dettagli minimi, sui gesti, sui silenzi, sulle infrazioni microscopiche che cambiano il destino dei protagonisti. La donna che scava una radice proibita, il bambino che si nasconde nel fumo della capanna, l’animale che osa andare dove nessun altro ha avuto il coraggio di tuffarsi. Ogni racconto è una variazione sul tema dell’eccesso e della caduta, della prova e della rinascita. E ogni personaggio, per quanto straordinario, conserva sempre un fondo umano, familiare, imperfetto. Reichard nota, ad esempio, che «il protagonista del ciclo dei gemelli è spesso disobbediente, impulsivo, quasi crudele, ma non per questo meno ammirato» (Reichard, 1921, p. 290), e questo perché ciò che conta non è la morale del gesto, bensì il potere trasformativo che esso incarna.

Sotto queste variazioni, dietro le maschere cangianti dei protagonisti, si rivela una struttura che potremmo definire archetipica. Come se, in fondo, ogni mito fosse la riscrittura di un unico grande racconto, il racconto della perdita e del ritorno, della separazione e della reintegrazione, del caos che si ordina attraverso il sacrificio, la sofferenza o la ribellione. Reichard, con una voce sommessa ma lucida, sembra suggerire che questi miti non parlano soltanto delle origini del mondo, ma anche, e forse soprattutto, della condizione umana nella sua forma più universale e atemporale.

2. Tipologie letterarie e stile: tra oralità e costruzione poetica

Reichard, con un taglio antropologico-letterario che anticipa sorprendentemente tanto gli studi strutturalisti di Lévi-Strauss quanto le mappe morfologiche tracciate da Propp, volge lo sguardo anche alla forma e non soltanto al contenuto dei miti nativi. Il suo intento è chiaro: trattare questi racconti non come residui folklorici o frammenti primitivi, bensì come testi letterari a pieno titolo, dotati di ritmo, di struttura, di stile. E lo fa senza paternalismo, senza sguardo dall’alto, ma con una curiosità attenta, quasi rispettosa, quasi devota. L’oralità, lungi dall’essere un limite, diventa anzi una fucina di possibilità espressive. I racconti, trasmessi da voce a voce e da cuore a cuore, rivelano elementi di una sorprendente raffinatezza: dialoghi drammatici costruiti con tensione teatrale, ripetizioni liriche simili a refrain poetici, metafore cosmiche che fondono l’umano e il celeste in un’unica architettura simbolica.

Sorprende e insieme affascina il fatto che ciascun narratore, spesso anziano, spesso figura liminale della comunità, imprime alla narrazione una propria tonalità inconfondibile. C’è chi predilige l’umorismo, chi l’elegia, chi l’introspezione e chi la grandiosità visionaria. Come scrive Reichard, «il tono del racconto varia considerevolmente a seconda della personalità del narratore» (Reichard, 1921, p. 273). E in questo si scorge, per chi voglia vederlo, un elemento profondamente moderno: la consapevolezza che la forma è inseparabile dalla voce, che non esiste mito senza un io narrante che lo faccia vibrare nel tempo.

Nonostante l’apparente difficoltà di incasellare queste narrazioni nei generi letterari occidentali, ballata, epica, dramma, parabola, Reichard evidenzia con finezza analitica che vi si ritrovano elementi strutturali ricorrenti e persino codificati. In particolare nei miti delle culture delle pianure e dei grandi laghi, ella nota «una tensione ritmica ottenuta mediante la ripetizione di formule, la simmetria delle scene e la progressione tematica» (Reichard, 1921, p. 274). I parallelismi tra le imprese del protagonista e le risposte del mondo naturale, le anafore che aprono ogni episodio con formule rituali, i climax che scandiscono il passaggio da un mondo a un altro, tutti questi tratti contribuiscono a rendere i racconti autentiche forme di letteratura vivente.

Non si tratta solo di tradizione orale, dunque, ma di una vera e propria poetica. Una poetica fluida, dinamica, partecipata. I miti non vengono semplicemente ripetuti, ma interpretati, rivissuti, reinventati a ogni narrazione. L’effetto, sul piano estetico, è quello di una sinfonia a più voci, in cui l’unità della trama si accompagna alla varietà timbrica di ogni interprete. Sul piano culturale, invece, questa letterarietà rende il mito uno strumento di coesione e di riflessione, capace di rispondere al tempo che cambia senza perdere la propria forza simbolica. E proprio per questo, scrive Reichard, «il valore letterario del mito non è inferiore a quello dei generi classici; esso è semplicemente differente per modalità e scopo» (Reichard, 1921, p. 276).

Che cos’è, allora, un racconto orale per una cultura che non scrive? È forse meno arte? Meno invenzione? Meno memoria? Al contrario. È, in molte di queste culture, la forma più alta di sapere condiviso, di etica incorporata, di estetica vivente. È letteratura, in senso pieno, in senso profondo, in senso collettivo.

3. Percorsi di trasmissione: come viaggiano i miti

Una delle domande centrali del lavoro di Gladys Reichard riguarda non tanto l’esistenza dei miti, quanto la loro sorprendente mobilità. Come si spostano le storie da un villaggio all’altro, da una tribù all’altra, da una regione all’altra? Come fanno i racconti, nati magari tra i ghiacci del nord, a riemergere nelle praterie centrali o nei deserti del sud con trame simili, motivi ricorrenti, strutture pressoché identiche? E soprattutto, ci si domanda: si tratta di invenzioni autonome, nate in parallelo ma senza legami, oppure di racconti trasmessi lungo rotte culturali invisibili ma efficaci, come vene sotterranee che alimentano lo stesso albero da radici differenti?

La risposta, come sempre nel metodo di Reichard, non è mai affrettata ma costruita pazientemente, con l’esame comparativo delle varianti, la catalogazione minuziosa dei motivi, la ricostruzione attenta delle relazioni culturali e geografiche. È proprio nell’analisi dettagliata di queste versioni che affiora la coerenza sorprendente dei motivi narrativi. Lo si vede, ad esempio, nel mito del Marito-Stella, che in numerose culture presenta due elementi invarianti: la corda del cielo che unisce il mondo umano a quello celeste, e la trasgressione che ne rompe l’equilibrio. Reichard osserva che «la figura della corda celeste è presente in molte varianti, spesso accompagnata dal tema della caduta causata dalla disobbedienza» (Reichard, 1921, p. 279). Questo motivo, che potrebbe sembrare unico o locale, è invece tracciabile in territori molto distanti fra loro, dalle foreste atlantiche alle Montagne Rocciose, dalle pianure Sioux alle terre dei Pawnee.

Proprio in questi casi emerge con forza l’approccio ereditato da Franz Boas, secondo il quale la presenza di una combinazione complessa di episodi simili in aree geografiche adiacenti non può essere spiegata come un caso di origine indipendente. È, al contrario, una prova di trasmissione culturale. Come scrive Reichard, «le corrispondenze dettagliate tra le varianti suggeriscono un processo di diffusione piuttosto che di sviluppo isolato» (Reichard, 1921, p. 280). Da questo principio, apparentemente semplice, discende un’intera cartografia del mito: un intreccio di linee mobili, corridoi narrativi, scambi di simboli e figure tra popoli spesso separati da barriere naturali ma uniti da reti invisibili di relazioni.

L’autrice traccia dunque vere e proprie mappe di diffusione mitica, mostrando come i racconti si propaghino non per caso ma seguendo traiettorie culturali specifiche. Il mito viaggia, scrive Reichard, attraverso una varietà di canali: l’incontro fra tribù durante le cerimonie stagionali, i matrimoni intertribali che portano con sé non solo spose ma interi patrimoni orali, i commerci e gli scambi che circolano oggetti e parole, ma anche le migrazioni, volontarie o forzate, che portano i racconti da un territorio all’altro come semi trasportati dal vento. «In molti casi» sottolinea Reichard «l’adozione di un mito da parte di una tribù diversa comporta modifiche che riflettono il nuovo contesto sociale e ambientale» (Reichard, 1921, p. 281).

Così, come un abito adattato alla statura di un nuovo corpo, il mito si rimodella pur conservando la sua anima. Cambia la cornice, cambiano i personaggi, cambiano i dettagli. Ma la trama rimane. Rimane la tensione tra il desiderio e il divieto, tra l’ordine e la disobbedienza, tra il cielo e la terra. Rimane, inalterata, la funzione del mito come strumento di interpretazione del reale. E questa capacità di viaggiare senza perdersi, di trasformarsi senza dissolversi, di radicarsi senza irrigidirsi, è forse la qualità più affascinante della tradizione orale dei popoli nativi.

4. Oltre la diffusione: adattamento, sincretismo e ritualizzazione

La trasmissione di un mito, contrariamente a quanto potrebbe suggerire una visione statica della tradizione, non è mai un passaggio neutro o meccanico. Non è un semplice trasferimento di parole da una bocca a un’altra, da una tribù a un’altra, da una generazione alla successiva. È, piuttosto, un atto creativo, spesso selettivo, talvolta trasformativo. Quando un mito attraversa una frontiera culturale, esso può essere ripetuto nella forma, ma raramente rimane immutato nel significato. Può essere adottato con reverenza, riadattato con ingegno, localizzato in nuovi paesaggi o inserito nei rituali esistenti. Come osserva Swanton, citato da Reichard, «un mito può essere ripetuto, adottato, relocalizzato o ritualizzato» (Reichard, 1921, p. 282). In ciascun caso, il racconto si trasforma per rispondere a nuovi bisogni, nuovi ambienti, nuovi ascoltatori.

Un esempio emblematico di questo processo è fornito dal mito del Marito-Stella, il quale, in alcune versioni, viene assunto dai Blackfoot non solo come racconto cosmologico, ma come fondamento simbolico di una delle più importanti cerimonie tribali: la Sun Dance. In questa rielaborazione, il viaggio della donna verso il cielo e il suo ritorno sulla terra non è più soltanto una favola celeste, ma diventa giustificazione rituale di un evento collettivo, sacro, annuale. Il mito, dunque, non viene semplicemente narrato. Viene agito, messo in scena, rivissuto nel corpo e nella memoria della comunità. Come scrive Reichard, «il mito fornisce un supporto ideologico alle pratiche religiose ed è spesso adattato per riflettere la struttura sociale o le esigenze morali del gruppo che lo adotta» (Reichard, 1921, p. 283).

Ma il processo non si arresta alla cerimonia. Esso penetra più in profondità, fino a toccare la relazione tra mito e storia. Alcune narrazioni, una volta incorporate in una nuova cultura, vengono legate a figure storiche realmente esistite: capi, guerrieri, sciamani, eroi locali. È il fenomeno che potremmo chiamare mitificazione, una fusione tra realtà e leggenda che rafforza l’identità collettiva e proietta il presente nel passato mitico. Altre volte ancora, il mito si ritrae in ambiti ristretti, riservati, segreti. Viene trasmesso soltanto agli iniziati, protetto da formule e silenzi, custodito come parte di un patrimonio esoterico. In questi contesti, il racconto non è più patrimonio comune, ma sapere specialistico, dotato di potere simbolico e pratico.

E poi ci sono i casi, tutt’altro che rari, in cui il mito cambia pelle per rispondere a mutamenti sociali più ampi. Può assumere un significato allegorico, diventare una parabola morale, farsi strumento di resistenza culturale di fronte alla pressione coloniale. Reichard nota che «i miti adattati in questo modo rivelano un’eccezionale elasticità tematica e una sorprendente capacità di riflessione culturale» (Reichard, 1921, p. 285). Lì dove il mondo cambia, il mito non si spezza. Si trasforma. Cambia voce, cambia veste, ma continua a parlare.

Questa dinamica di trasformazione, che potremmo definire con un’immagine biologica metabolismo mitico, conferma quanto la mitologia nativa americana non sia un sistema fisso, né un museo di forme arcaiche, ma un organismo vivente. Un sistema in costante evoluzione, sensibile al contesto, capace di rigenerarsi pur conservando una memoria profonda. Come una pianta che, pur crescendo in un nuovo suolo, continua a portare in sé il sapore della terra da cui è nata.

Bibliografia

Reichard, G. A. (1921). Literary Types and Dissemination of Myths. The Journal of American Folklore, 34(133), 269–307

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