Northrop Frye esplora il mito come architettura invisibile della narrazione. La letteratura moderna, apparentemente distante, si fonda su antichi schemi mitici. Ogni storia, se analizzata a fondo, rivela un’origine archetipica e strutturale.
Indice
- Il mito come fondamento strutturale della letteratura
- Trama, tema e riconoscimento: la costruzione del significato
- Displacement: il mito travestito da realismo
- Oltre il contenuto: verso una critica della forma
1. Il mito come fondamento strutturale della letteratura
Nel saggio Myth, Fiction, and Displacement, pubblicato nel 1961, Northrop Frye introduce un’idea dirompente e radicale: il mito non è un residuo arcaico da confinare alle prime fasi della civiltà, bensì il fondamento invisibile e strutturale della narrazione moderna. La letteratura, pur trasformandosi nei secoli, non abbandona mai del tutto la sua matrice originaria. Ogni racconto – dai romanzi realistici alle favole, dai thriller ai racconti d’avventura, fino alle opere più complesse di Joyce, Mann o Faulkner – è inscritto, consapevolmente o meno, in una rete di archetipi, simboli e strutture narrative che affondano le radici nella mitologia collettiva dell’umanità.
Tale insistenza non nasce da una semplice fascinazione estetica per il “meraviglioso” o il “soprannaturale”, bensì dalla convinzione che il mito fornisca una struttura narrativa predefinita, una sorta di “modello originario” (archetype) che rende possibile l’articolazione coerente del racconto. Il mito è, in altre parole, una grammatica invisibile del narrare, un sistema di significati stratificati e condivisi. Frye non tratta il mito come contenuto o tematica, ma piuttosto come forma, cioè come struttura ricorrente e codificata che organizza e regola il dispiegarsi della trama e del significato (Frye, 1961, p. 589).
In tal senso, il mito è ciò che precede la letteratura e contemporaneamente la contiene. Come egli stesso afferma, è un “sistema verbale totale” (total verbal structure) che si configura come il contorno archetipico di ogni universo narrativo (Frye, 1961, p. 600). Mentre la letteratura tende ad adattarsi ai mutamenti storici e culturali, il mito resta immutabile nella sua funzione strutturale: esso racconta ciò che “accade solo nei racconti”, ovvero eventi e personaggi che vivono fuori dal tempo, sospesi in un tempo mitico (in illo tempore), svincolati dalle esigenze di verosimiglianza o dalle regole della psicologia realistica.
Frye sottolinea come la narrativa moderna, per quanto si sforzi di apparire realistica o “plausibile”, continui a riflettere inconsciamente una forma mitica sottostante, così come un dipinto moderno può astrarre ma non può mai liberarsi del telaio su cui è steso. In modo analogo a ciò che accade nelle arti visive, dove l’astrazione geometrica e la schematizzazione formale dominano l’estetica contemporanea, anche la narrazione – quando è autenticamente consapevole di sé – tende a rivelare la propria appartenenza a un ordine mitico. I romanzi di Kafka, i drammi di Beckett, le allegorie di Borges: tutti questi esempi letterari, pur collocati in epoche e contesti differenti, si inscrivono in un universo di senso preesistente, fatto di cicli, riti, modelli e metamorfosi che rimandano al mito.
La letteratura, dunque, non è tanto un riflesso della vita reale, quanto una rielaborazione simbolica della condizione umana attraverso forme che hanno origine nel mito. Quando un racconto ci coinvolge, lo fa non solo per la sua trama o per i suoi personaggi, ma perché tocca, spesso senza che ce ne accorgiamo, quelle strutture narrative profonde che riconosciamo istintivamente come universali. In Frye, tutto questo si traduce in un nuovo approccio critico: leggere non solo “cosa” racconta un’opera, ma “come” lo fa – e scoprire così che ogni grande racconto è, in fondo, una variazione di un mito antico.
2. Trama, tema e riconoscimento: la costruzione del significato
Nel cuore dell’esperienza letteraria, spiega Frye, c’è un’apparente contraddizione: ciò che ci coinvolge durante la lettura è la continuità narrativa, il fluire ininterrotto degli eventi, ciò che lui chiama “la persuasione della continuità”. Questa forza – che ci tiene incollati alle pagine di un romanzo o ci trattiene sulla poltrona a teatro – può derivare da una varietà di strategie: dal ritmo epico alla suspense del romanzo giallo, dalla tensione erotica alla curiosità psicologica. Tuttavia, quando cerchiamo di ricordare un’opera, ciò che rimane nella memoria non è la sequenza degli eventi, ma frammenti: immagini, battute, scene isolate, caratterizzazioni vivide, sensazioni (Frye, 1961, pp. 587–588). In altre parole, la trama – nel senso aristotelico di mythos, cioè imitazione di un’azione – guida la nostra attenzione nel tempo, ma tende a dissolversi nella memoria, lasciando spazio a un mosaico disordinato di impressioni.
Ed è proprio in questa cesura tra l’esperienza diretta e la memoria critica che interviene la nozione di tema, inteso non come semplice argomento (ad esempio: “la vendetta”, “l’amore”, “la guerra”), ma come struttura simultanea, come totalità che può essere afferrata solo dopo la lettura. Frye propone qui un uso particolare del termine dianoia, mutuato e ampliato rispetto all’accezione aristotelica: la “forma-pensiero” che emerge quando ogni evento è riletto alla luce dell’insieme, e non più come parte di una progressione lineare (Frye, 1961, p. 590). Il tema, quindi, è ciò che permette alla narrazione di esistere come oggetto coerente: non un flusso nel tempo, ma una struttura simultanea nello spazio critico.
Un momento cruciale di questo processo è rappresentato dall’anagnorisis, ovvero il riconoscimento. Questo momento – descritto da Aristotele nella Poetica – è il punto in cui il lettore o lo spettatore “vede” il senso complessivo dell’opera, attraverso un gesto, una rivelazione, un’emblema, un oggetto simbolico. Nella tragedia, spesso coincide con il precipizio verso la catastrofe; nella commedia, con la risoluzione felice. Frye ricorda che la commedia tende a seguire un movimento a “U”, partendo da una situazione di armonia, scendendo nella confusione e risalendo verso l’ordine ristabilito. La tragedia invece segue un’arco invertito: ascesa, crisi, peripezia e caduta (Frye, 1961, p. 591).
Ciò che si riconosce, nota Frye, non è qualcosa di nuovo, ma qualcosa che era presente fin dall’inizio: un’identità nascosta, una verità implicita, una coerenza latente. Questo riconoscimento spesso si lega a oggetti emblematici (un anello, un marchio, un segno, una cicatrice), che non sono meri dettagli di trama ma segni della struttura mitica sottostante. Nelle fiabe e nei drammi antichi, questi oggetti – come il fazzoletto in Otello o la cicatrice di Ulisse – rivelano non solo l’identità dei personaggi, ma la totalità del disegno narrativo.
Come Frye sintetizza in un passaggio particolarmente efficace:
“Ogni evento o incidente, ora comprendiamo, è una manifestazione di un’unità sottostante, una unità che esso nello stesso tempo nasconde e rivela, come i vestiti fanno con il corpo” (Frye, 1961, p. 590).
È in questo gioco tra occultamento e rivelazione, tra superficie narrativa e forma simbolica, che si cela la potenza del racconto. E proprio perché ogni buona narrazione è costruita secondo queste leggi profonde, il riconoscimento finale non è solo una svolta nella trama, ma un’apertura interpretativa, una finestra che consente di vedere l’intera opera in prospettiva tematica e mitica.
3. Displacement: il mito travestito da realismo
Come si spiega, allora, la distanza apparente tra il mito e la letteratura realistica? Frye risponde con il concetto chiave di “displacement”, ovvero lo spostamento narrativo, lo slittamento simbolico che consente all’archetipo mitico di sopravvivere anche in forme apparentemente lontane, camuffate sotto le esigenze della verosimiglianza. In altre parole, la narrativa moderna non abbandona le strutture mitiche, ma le traveste, le “disloca” in un contesto psicologico, sociale o storico coerente con i valori della cultura realistica.
Il romanzo realistico – da Defoe a Trollope, passando per Austen, Dickens e George Eliot – non rinuncia agli archetipi: l’orfano abbandonato e ritrovato, il viaggio dell’eroe, l’inversione di fortuna, il riconoscimento finale, il sacrificio morale, la redenzione sociale – tutti elementi centrali del mito – permanenti sotto la superficie di storie apparentemente ordinarie. Frye osserva che, nel romanzo ottocentesco, la tensione tra forma mitica e verosimiglianza diventa particolarmente forte: da un lato, la narrazione si sottomette ai criteri di plausibilità; dall’altro, continua a obbedire alle esigenze formali del racconto, che hanno sempre origine mitica (Frye, 1961, pp. 595–596).
Nel contesto del romanzo naturalistico, questa tensione produce un effetto curioso: la trama viene spesso percepita come un orpello artificiale, un “meccanismo” inserito per soddisfare i gusti del mercato editoriale. Dickens ne è un esempio eclatante: se da una parte i suoi personaggi e ambientazioni sono vividi e complessi, dall’altra le trame, con i loro colpi di scena e finali fortemente simbolici, rivelano una forte impronta mitica – tanto da risultare a volte inverosimili.
Frye spiega che questa trasformazione non riguarda solo la narrativa cosiddetta “alta”. Anche nei generi popolari – gialli, romanzi rosa, fantascienza, horror, fantasy – si manifesta una sorprendente rigidità strutturale, che ricalca fedelmente gli schemi della fiaba, del mito eroico, del viaggio iniziatico. Il detective che smaschera il colpevole, l’innamorata che supera le prove e conquista l’amore, l’eroe che salva il mondo da una minaccia cosmica: tutti sono variazioni moderne su figure archetipiche profondamente radicate nel patrimonio mitico dell’umanità. Come osserva Frye, “la narrativa popolare, lungi dall’essere libera o innovativa, è spesso più vincolata e codificata dei romanzi letterari” (Frye, 1961, p. 594).
L’ossessione moderna per la coerenza logica, la psicologia plausibile e il realismo morale non è altro, allora, che un velo narrativo, una maschera che nasconde – e allo stesso tempo protegge – le strutture ancestrali su cui poggia l’intera impalcatura narrativa. Anche quando il mito non viene nominato esplicitamente, la sua funzione strutturale resta intatta: organizza il senso, definisce i ruoli, orienta l’interpretazione. Come nei dipinti iperrealisti che nascondono una composizione classica, anche nella narrativa realistica il lettore moderno, apparentemente immune alla magia, viene condotto lungo traiettorie che il mito ha già tracciato secoli prima.
Alla luce di questo, Frye invita a rivedere la gerarchia implicita tra “letteratura alta” e “narrativa popolare”. Se il mito è presente ovunque, la differenza non sta nel se una storia sia mitica, ma nel modo in cui la miticità è dissimulata, manipolata o riaffermata. Il concetto di displacement consente di riconoscere che perfino il romanzo più sobrio e realistico può essere, a livello profondo, una fiaba travestita da cronaca.
4. Oltre il contenuto: verso una critica della forma
Frye denuncia una tendenza dominante nella critica letteraria moderna: quella che privilegia l’effetto sul lettore, ovvero tutto ciò che rientra nell’esperienza immediata e frammentaria dell’opera – caratterizzazione, immagini vivide, dialoghi incisivi, colpi di scena, atmosfera emotiva. È il dominio di ciò che egli chiama critical naturalism, un’attenzione puntuale ma dispersiva, rivolta ai dettagli testuali più che alla totalità strutturale. In questa prospettiva, ciò che conta è “come ci si sente” leggendo un’opera, e non come è costruita (Frye, 1961, pp. 595–596). Ma l’esperienza letteraria non si esaurisce nell’effetto: per comprenderla fino in fondo è necessario risalire alla sua causa formale, ossia a quel principio strutturante che tiene insieme l’opera come un tutto coerente, come un organismo retorico e simbolico.
È qui che Frye propone la necessità di una “critica della forma”, o meglio di una vera e propria mitocritica: un approccio capace di riconoscere e analizzare le strutture archetipiche che stanno alla base di ogni genere narrativo. Commedia, tragedia, satira, epopea: ciascuno di questi generi si fonda su modelli mitici profondi, codificati, ma spesso celati dal contenuto apparente. Non basta dunque chiedersi di cosa parla un testo, ma occorre chiedersi come si articola la sua forma, a quale modello simbolico appartiene, quale mito reinterpreta o disloca.
In quest’ottica, la letteratura diventa non un semplice contenitore di storie, ma una mitologia ricostruita, un universo autonomo che possiede un ordine interno simile a quello dei sistemi mitologici classici. Così come i miti antichi costruivano un “universo verbale” capace di dare forma e senso all’esperienza collettiva, allo stesso modo la letteratura moderna produce un proprio cosmo, fatto di generi, convenzioni, cicli, e ritorni. Ogni opera letteraria, anche la più originale, prende posto in questo sistema più ampio, e assume un significato profondo solo se collocata in relazione con l’intera tradizione letteraria (Frye, 1961, pp. 600–601).
Il lettore non esperto coglie l’aneddoto, la trama superficiale, l’intrattenimento. Il critico, invece, deve risalire alla radice simbolica, riconoscere la configurazione mitica che dà forma al racconto, e collocare l’opera all’interno del corpus della letteratura intesa come sistema. Solo allora ogni testo “risuona” di altri testi, ogni figura richiama un archetipo, ogni scena si carica di echi e allusioni: la lettura si trasforma in una forma di conoscenza e il testo diventa un nodo in una rete infinita di significati.
In questo senso, Frye anticipa una visione intertestuale e strutturale della letteratura, dove ogni opera non è mai isolata, ma parte di un dialogo continuo tra miti e racconti, tra passato e presente, tra forma e variazione. Una visione che, se assunta con coerenza, sposta il baricentro della critica dal contenuto all’architettura, dalla superficie al disegno profondo, restituendo alla letteratura la sua funzione primaria: non imitare la realtà, ma rielaborarla simbolicamente, costruendo universi.
Riferimento bibliografico
Frye, N. (1961). Myth, Fiction, and Displacement. Daedalus, 90(3), pp. 587–605.