Danzare lo spazio quotidiano: il corpo in movimento tra le pagine di Georges Perec

Attraverso il dialogo tra danza contemporanea e scrittura oulipiana, Leslie Satin esplora come l’attenzione perecchiana al quotidiano e allo spazio influenzi pratiche corporee e performative, ridefinendo l’esperienza incarnata nei luoghi comuni della vita urbana.

Indice

  1. Lo sguardo disobbediente: Perec, lo spazio e il quotidiano
  2. Corpo e coreografia: una grammatica comune
  3. L’autobiografia come frammento fisico
  4. Cataloghi del corpo, danze dell’ordinario

1. Lo sguardo disobbediente: Perec, lo spazio e il quotidiano

Georges Perec non si limita a scrivere dello spazio: lo reinventa, lo disseziona, lo interroga, lo rende permeabile ai ricordi, ai desideri, alle disattenzioni. Nelle sue opere più emblematiche – da Specie di spazi (Espèces d’espaces) a La vita istruzioni per l’uso (La Vie mode d’emploi) – lo spazio quotidiano si trasforma in un vero e proprio laboratorio narrativo, un archivio personale e collettivo, un palinsesto di esperienze ordinarie e straordinarie. Ma soprattutto, diventa un luogo da abitare con occhi nuovi, da esplorare come se fosse vergine, come se ogni oggetto, ogni vuoto, ogni superficie portasse con sé il segreto della nostra esistenza quotidiana. È questa capacità di “vedere stupidamente”, come lui stesso provocatoriamente suggerisce in Specie di spazi, che secondo Leslie Satin trova una risonaza profonda e inattesa nel mondo della danza contemporanea (Satin, 2019, p. 154).

Nel saggio Embodiment and Everyday Space: Dancing with Georges Perec, Satin individua nella poetica perecchiana del banale una matrice coreografica: un modo di stare al mondo che è al tempo stesso scrittura e presenza. Come Perec invita a registrare i dettagli minimi e apparentemente insignificanti della vita – le scale, le finestre, i margini delle stanze – così il danzatore postmoderno, in particolare quello influenzato dalle tecniche somatiche o dalla contact improvisation, è chiamato a esplorare i margini del movimento, i gesti interstiziali, le micro-espressioni del corpo. Non si tratta semplicemente di occupare uno spazio, bensì di costruirlo attraverso la percezione, l’intenzione e l’ascolto fisico, attivando una sensibilità incarnata che trasforma il movimento in esperienza abitata.

Quando un danzatore entra in uno spazio – sia esso un teatro, un marciapiede, una cucina o un corridoio d’ufficio – non lo attraversa come uno spettatore passivo: lo costruisce, lo carica di senso, lo fa risuonare. Così come Perec ci invitava a notare il banale, il non detto, l’infra-ordinario – ciò che sfugge al nostro sguardo perché troppo vicino, troppo familiare – anche la danza postmoderna, specialmente nelle pratiche sviluppate da artisti come Trisha Brown o Yvonne Rainer, si è fatta carico di interrogare i luoghi comuni del corpo e del gesto. Le posture quotidiane, i movimenti interrotti, le azioni ripetitive diventano materiale coreografico, oggetto di studio e strumento di consapevolezza.

Satin analizza proprio questa convergenza: la tensione condivisa tra scrittura e danza verso il non spettacolare, verso una forma di espressività che non cerca l’effetto, ma la concentrazione, che rifiuta la gerarchia del “movimento importante” per privilegiare il dettaglio, il ritornello, l’incertezza (Satin, 2019, pp. 155–156). In entrambi i casi, si tratta di un gesto eminentemente politico. Rendere visibile l’invisibile, restituire centralità all’ordinario, contrastare l’assuefazione sensoriale imposta dalla sovraesposizione mediatica sono azioni che hanno la forza di ribaltare le gerarchie della percezione.

Tanto il danzatore quanto lo scrittore oulipiano cercano di abitare l’infra-ordinario: il primo attraverso la ripetizione di gesti minimi, il secondo attraverso l’accumulo ossessivo di dettagli e liste. Entrambi propongono una critica implicita alle logiche del consumo e della spettacolarizzazione, in cui il valore delle cose è spesso misurato dalla loro eccezionalità o dalla loro funzione. Perec e la danza contemporanea, invece, pongono domande radicali: che cos’è lo spazio, se non un’estensione del nostro corpo? E che cos’è il corpo, se non il primo archivio dei nostri spazi? Domande che, lungi dall’essere astratte, riguardano il nostro modo di abitare il mondo, di sentirlo, di ricordarlo.

2. Corpo e coreografia: una grammatica comune

La scrittura oulipiana di Georges Perec, costruita secondo vincoli formali rigidi, giochi combinatori e regole matematiche imposte dall’autore a se stesso, può sembrare a prima vista lontana dall’espressività apparentemente libera, fluida e intuitiva della danza contemporanea. Tuttavia, come osserva acutamente Leslie Satin, esiste un sorprendente terreno di convergenza: sia Perec sia molti coreografi postmoderni condividono un profondo interesse per la struttura, per l’organizzazione interna del gesto o della frase, e per quella tensione costante tra vincolo e libertà, tra sistema e improvvisazione (Satin, 2019, p. 156). Non è dunque un caso che entrambi trovino senso non tanto nella forma compiuta quanto nel processo, nell’atto stesso della creazione, nella sfida di esprimersi all’interno di un quadro di limiti che costringe a scelte inaspettate.

Così come il danzatore esplora nuove possibilità del corpo attraverso score, istruzioni operative, schemi ripetuti, improvvisazioni controllate o tecniche somatiche, anche Perec reinventa la forma narrativa costringendola entro cornici rigide. Si pensi, ad esempio, al celebre romanzo La disparition, interamente scritto senza mai utilizzare la lettera “e”, la vocale più frequente della lingua francese. Ma non si tratta, né nel caso della danza né in quello della scrittura, di un mero esercizio stilistico: queste strategie sono, piuttosto, pratiche di esplorazione e conoscenza. Il vincolo, lungi dall’essere un ostacolo, diventa uno strumento epistemologico: permette di osservare il mondo in modo diverso, di scoprire nuove forme di significato, di aprire interstizi tra il visibile e il dicibile.

Questa analogia tra coreografia e scrittura si fonda su una comune intenzione di interrogare la rappresentazione e la percezione del reale. Satin sottolinea come entrambi i linguaggi – il corpo danzante e la pagina scritta – agiscano come forme di documentazione sensibile. Essi non si limitano a descrivere: producono senso, generano risonanze, riflettono sulle condizioni materiali e affettive dell’esistenza. In altre parole, rendono visibile l’invisibile, portano alla luce ciò che solitamente sfugge alla coscienza o viene espulso dalla narrazione dominante. Un gesto minimo, reiterato con attenzione, può evocare paesaggi interiori, memorie stratificate, tensioni relazionali. Allo stesso modo, una lista di oggetti domestici, apparentemente neutra o banale, può raccontare – proprio come fa Perec in Les choses o in Je me souviens – l’identità profonda di una generazione, le sue abitudini, i suoi desideri latenti.

Non è un caso che Satin insista sul valore della ripetizione e della frammentazione come modalità estetiche condivise. Laddove la danza contemporanea frammenta la narrazione e sospende il virtuosismo per esplorare il dettaglio, la scrittura perecchiana adotta strutture reticolari, elenchi, inventari, costruzioni seriali che rifiutano il racconto lineare in favore di una topografia dell’esperienza. L’attenzione al dettaglio diventa così il punto di contatto più profondo tra questi due mondi: è nel minuscolo, nel trascurato, nel parziale che si rivela la complessità dell’esistenza. Il danzatore e lo scrittore, ciascuno con il proprio linguaggio, ci invitano a rallentare lo sguardo, a osservare ciò che normalmente ignoriamo, a fare spazio al silenzio e all’ombra.

Infine, vi è una dimensione quasi etica in questa estetica del vincolo e della presenza. Scrivere come Perec o danzare come nei lavori di Steve Paxton o Lisa Nelson significa accettare l’incertezza, abitare l’instabilità, dare valore a ciò che è fragile e sfuggente. In un mondo dominato dalla velocità e dalla trasparenza, entrambi ci propongono una pratica dell’opacità, dell’attenzione e della cura. Non si tratta semplicemente di rappresentare il reale, ma di viverlo, incarnarlo, attraversarlo con tutti i sensi all’erta. E forse, proprio in questa convergenza tra scrittura e corpo, risiede una possibilità politica: restituire centralità all’esperienza concreta, rimettere al centro la soggettività, riscoprire il valore dell’ordinario.

3. L’autobiografia come frammento fisico

La dimensione autobiografica del lavoro di Georges Perec è discreta, quasi timida, eppure ineludibile. Non si impone, non si dichiara, ma permea le sue pagine come una presenza fantasma: affiora nei vuoti, nei silenzi, negli elenchi spezzati. Le sue perdite – la famiglia sterminata durante la Shoah, la madre deportata ad Auschwitz, l’identità ebraica non trasmessa, la lingua spezzata e poi reinventata – diventano materia narrativa non attraverso la confessione diretta, bensì tramite strategie di elusione, cancellazione, reticenza. Il non detto, per Perec, è più eloquente del detto. È proprio in questa scelta di rappresentare l’assenza che si manifesta la profondità autobiografica della sua scrittura. Una “autobiografia implicita”, come la definisce Leslie Satin, che si realizza per via negativa, lasciando che sia la forma a parlare per l’esperienza (Satin, 2019, p. 160).

Questa poetica dell’assenza ha un corrispettivo diretto nella danza contemporanea, soprattutto nelle pratiche che si sono sviluppate a partire dagli anni Settanta e Ottanta. Molti coreografi e performer, rinunciando alle narrazioni lineari e ai codici espressivi tradizionali, hanno iniziato a esplorare modalità più intime, frammentarie, non rappresentative. In questo contesto, il corpo non viene più concepito come strumento per “mettere in scena” una storia, ma come luogo in cui la storia accade, come archivio vivo e mutevole di esperienze personali, emozioni, traumi. Il corpo danzante diventa una soglia tra l’interiore e l’esteriore, tra la memoria e l’ambiente, tra il passato e il presente.

Se Perec si chiedeva «Dov’è il nostro corpo? Dove il nostro spazio?», interrogando con ostinazione la relazione tra identità e collocazione fisica nel mondo, i danzatori rispondono con pratiche somatiche e performative che riconducono l’attenzione al corpo vissuto. Satin fa riferimento, ad esempio, alla small dance, una tecnica minimale che consiste nello stare in piedi, in silenzio, percependo le micro-movimentazioni del corpo. Ma potremmo pensare anche alle performance site-specific, alle azioni coreografiche realizzate in spazi pubblici, ai gesti quasi impercettibili eseguiti in una stazione della metropolitana o in un supermercato, che scardinano le logiche dello spettacolo per restituire al corpo il suo diritto a esistere, semplicemente, nel quotidiano.

In questi gesti silenziosi, nelle posture sospese, nei movimenti appena accennati si inscrivono memorie personali e collettive. Come una pagina perecchiana, il corpo performante si fa archivio mobile, capace di accogliere il vissuto individuale e trasformarlo in espressione senza bisogno di rappresentazione. Il corpo non “racconta” un’esperienza: la incarna. Non traduce un’emozione in forma estetica: la lascia emergere come traccia, come vibrazione, come eco.

Satin sottolinea con particolare efficacia come questa modalità performativa produca una forma di testimonianza incarnata. La danza, in questa prospettiva, non è più solo estetica del movimento, ma etica della presenza. Non si tratta di raccontare eventi nel senso cronologico o narrativo del termine, ma di affermare l’esistenza di un soggetto nello spazio, nella sua verità fragile e mutevole. Una verità che si costruisce nella relazione con l’ambiente, con gli oggetti, con gli altri corpi. Così come Perec registra la propria autobiografia attraverso gli oggetti perduti, le stanze abitate, i dettagli apparentemente insignificanti, anche il danzatore testimonia di sé attraverso la propria capacità di stare nel mondo con consapevolezza, ascolto e attenzione.

In questo senso, la danza può essere letta come una scrittura del sé che non ha bisogno di parole: una forma di autobiografia incarnata che prende forma nella relazione con lo spazio, nel tempo vissuto, nella qualità della presenza. E forse è proprio in questa dimensione che il dialogo tra Perec e la danza contemporanea si fa più intenso, più necessario. Entrambi ci insegnano a non avere paura del vuoto, della ripetizione, del silenzio. Entrambi ci invitano a scoprire, nelle pieghe dell’ordinario, la possibilità di raccontare ciò che più intimamente ci appartiene.

4. Cataloghi del corpo, danze dell’ordinario

Uno degli aspetti più poetici e, al tempo stesso, più profondi dell’accostamento tra l’opera di Georges Perec e la danza contemporanea, così come lo interpreta Leslie Satin, è il concetto di catalogo. Perec cataloga il mondo per addomesticarlo, per renderlo leggibile, forse anche per non farselo sfuggire. Elenca, accumula, nomina, ordina ciò che ci circonda in serie, in liste, in registri analitici. Gli spazi perecchiani – siano essi la propria stanza, un condominio parigino, un tavolo da cucina o una pagina bianca – sono fatti di oggetti comuni, rumori domestici, parole ripetute, tracce materiali del vivere quotidiano. Questa metodologia scritturale, che può apparire ossessiva o maniacale, è in realtà un atto d’amore verso l’ordinario, un tentativo di dare dignità e forma a ciò che solitamente viene ignorato.

In modo sorprendente, Satin suggerisce che anche il danzatore prepara il proprio corpo attraverso un catalogo, sebbene invisibile e non verbale. È un inventario fatto di sensazioni, allineamenti, posture, tensioni muscolari, appoggi e micro-movimenti che precedono l’azione visibile. Prima di ogni danza, il corpo compie un viaggio interiore, un’analisi silenziosa che tocca la spalla, il ginocchio, la caviglia, il respiro, la pelle. Ogni parte viene “scansionata” in un rituale che unisce anatomia e affettività, memoria e ascolto. Satin descrive questa preparazione come una forma di mappatura sensibile del sé nello spazio, una vera e propria cartografia del corpo vissuto (Satin, 2019, p. 162).

Ma è fondamentale chiarire, come precisa l’autrice, che non si tratta di un semplice esercizio tecnico o di una sequenza meccanica. Questo catalogo corporeo non è sterile né oggettivo. È una forma di attenzione radicale, una pratica di consapevolezza che permette al danzatore di “sentirsi come spazio”, di abbandonare la centralità dell’ego per entrare in relazione con ciò che lo circonda. In questa apertura percettiva, ogni gesto, anche il più semplice – stare in piedi, respirare, camminare – si carica di senso. Non è l’azione a essere straordinaria, ma lo sguardo che la sostiene, la cura che la precede, la qualità della presenza che l’attraversa.

L’eco di questa visione si ritrova nelle pagine di Perec, laddove egli invita a osservare la strada, i passanti, le insegne, le pietre del marciapiede, senza aspettarsi nulla di eccezionale. Lo straordinario, per Perec, non è ciò che rompe la routine, ma ciò che vi è nascosto. È l’ovvio che nessuno nota, è il ritmo sotterraneo della quotidianità. Anche nella danza, secondo Satin, si può riscoprire questo stupore dell’ovvio. La pratica coreografica diventa allora una forma di pensiero incarnato che interroga la realtà non con grandi affermazioni, ma con microspostamenti di senso.

In questo modo, l’esperienza della corporeità quotidiana si trasfigura in atto estetico, in gesto critico, in percorso di conoscenza. Il corpo, come la scrittura perecchiana, non afferma, ma interroga. Non si impone, ma ascolta. E così facendo, rivela. La danza che nasce da questa consapevolezza non è fatta per essere ammirata, ma per essere vissuta; non cerca l’applauso, ma la risonanza; non costruisce immagini, ma relazioni. E come nei testi di Perec, ciò che sembrava insignificante si rivela improvvisamente essenziale.

Alla fine di questo percorso parallelo tra linguaggio e movimento, tra scrittura e gesto, ciò che emerge con forza è la possibilità di una poetica dell’attenzione. Perec e la danza, pur operando in ambiti distinti, convergono nella proposta di un’estetica del presente, fragile e lucida, fatta di dettagli, di vuoti, di silenzi. Una poetica che non grida, ma resta, che non costruisce monumenti, ma archivi invisibili. E forse è proprio in questa tensione silenziosa, in questo sguardo laterale, che possiamo imparare a guardare di nuovo lo spazio che abitiamo – e, con esso, noi stessi.


Riferimento bibliografico

Satin, L. (2019). Embodiment and everyday space: Dancing with Georges Perec. In: C. Forsdick, A. Leak, & R. Phillips (Eds.), Georges Perec’s Geographies: Material, Performative and Textual Spaces (pp. 154–169). London: UCL Press.

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