Echi dal Regno di Mezzo: Rileggere la letteratura cinese attraverso lo sguardo occidentale

Un’analisi critica dell’opera History of Chinese Literature di Herbert A. Giles, che svela come la storiografia letteraria occidentale possa al contempo avvicinare e distorcere la comprensione della cultura cinese antica.

 Indice

  1. Un ponte tra mondi lontani: Giles e il suo contributo
  2. Decostruire gli intoccabili: Tao, Confucio e il coraggio della critica
  3. Poesia, prosa e il battito sottile dell’estetica cinese
  4. Tra ammirazione e autorità: chi racconta la storia letteraria di una civiltà?

1. Un ponte tra mondi lontani: Giles e il suo contributo

Quando Herbert A. Giles diede alle stampe A History of Chinese Literature nel 1901, non si accontentò di offrire una semplice cronologia dei principali testi e autori: compì, in realtà, un gesto intellettualmente ardito e storicamente cruciale. Il suo intento era quello di edificare un ponte robusto tra due mondi apparentemente inconciliabili, quello della filologia occidentale e quello della sapienza millenaria cinese. Un’impresa titanica, se si considera che l’opera, nelle parole dello stesso George T. Candlin, rappresenta “the completion of a boon” che Giles aveva già preannunciato alcuni anni prima con Gems of Chinese Literature, ma che solo con quest’opera maggiore assume la forma di una sintesi enciclopedica capace di abbracciare l’intero arco della produzione letteraria cinese, dagli albori mitici fino alla tarda epoca manciù (Candlin, 1901, p. 616).

Candlin sottolinea, sin dalle prime righe della sua recensione pubblicata su The Monist, che Giles ha reso un servizio incalcolabile sia agli specialisti che ai lettori comuni, permettendo a entrambi di accedere a un patrimonio letterario “di ampiezza travolgente e continuità ininterrotta”, attraverso un’opera che unisce la profondità della ricerca alla fruibilità della forma (Candlin, 1901, p. 617). Il volume si presenta infatti come un imponente ottavo di 450 pagine, curato nel dettaglio, in cui il lettore occidentale può finalmente trovare una guida affidabile per addentrarsi nel vasto e, fino ad allora, inaccessibile universo testuale cinese.

Non va dimenticato il contesto in cui questo libro vide la luce: la Cina era uscita malconcia dalla Rivolta dei Boxer (1899–1901), il sentimento sinofobo cresceva in Europa, e l’opinione pubblica tendeva a ridurre l’intera civiltà cinese a una caricatura—barbara, arretrata, chiusa al progresso. Giles, pur non essendo esente da alcune derive eurocentriche tipiche del suo tempo, si fa invece portavoce di una visione alternativa. La sua opera è, secondo Candlin, un atto di restituzione, un tentativo di ribilanciare l’immagine distorta dell’“altro cinese” che circolava nella stampa e nei salotti culturali dell’epoca. Egli mostra, con fatti, traduzioni e contestualizzazioni puntuali, che il popolo cinese non solo ha prodotto una letteratura di altissimo livello, ma lo ha fatto con una coerenza e una varietà che non temono confronti con quelle dell’Occidente classico. Anzi, Candlin arriva ad affermare che “the best literature of China would not have been shamed by comparison” con i capolavori della Grecia antica o della stessa epoca vittoriana (Candlin, 1901, p. 617).

Ciò che colpisce, ancora oggi, è lo stile con cui Giles riesce a realizzare questa impresa. Candlin ne loda ripetutamente la capacità di evitare l’aridità accademica che affligge molti dei suoi contemporanei, come Legge, Chalmers o Edkins. Là dove questi ultimi risultano a tratti oscuri, reticenti o “heavy with learning and lacking brightness of style”, Giles eccelle per “freshness, realism, practicality” e una modernità cristallina, che permette al lettore di “attraversare il deserto” della letteratura cinese come se seguisse un sentiero già battuto, ben segnalato e sgombro da ostacoli (Candlin, 1901, pp. 617–618). Lungi dall’essere un semplice traduttore o divulgatore, Giles appare come un interprete culturale nel senso più pieno del termine: colui che, con profonda erudizione e instancabile disciplina, riesce a trasporre non solo le parole, ma le intenzioni e i contesti della cultura scritta cinese.

Infine, Candlin non esita a collocare Giles nel pantheon dei grandi sinologi occidentali, sottolineando come le sue opere—dal Dictionary al Mandarin Primer, dalla traduzione del Lieh Tzu fino a Synoptical Studies in Chinese Characters—costituiscano un corpus che, per quantità e qualità, fa di lui “great among the greatest, if not greatest among the great” (Candlin, 1901, p. 618). Giles non si limita a interpretare: egli plasma la percezione stessa della letteratura cinese in Occidente, influenzando generazioni di lettori, studenti e accademici. E lo fa con uno stile inconfondibile, energico, a tratti pugnace, ma mai noioso. In un’epoca in cui la noia era quasi una virtù accademica, Giles aveva capito che la conoscenza, per essere viva, doveva anche saper coinvolgere.

2. Decostruire gli intoccabili: Tao, Confucio e il coraggio della critica

Ma l’eredità intellettuale di Herbert A. Giles non è quella del devoto agiografo intento a esaltare senza riserve i testi sacri della tradizione cinese. Al contrario, la sua opera si distingue per un atteggiamento critico, razionalista e, in più di un passaggio, spietatamente iconoclasta. Egli si accosta ai testi canonici con uno spirito laico e filologico, spesso in netta antitesi con l’atteggiamento reverenziale della sinologia confuciana. Questo approccio, che ancora oggi suscita riflessioni e resistenze, trova forse la sua espressione più radicale nell’analisi del Tao Te Ching, il celebre trattato attribuito a Laozi, fondamento della filosofia taoista. Giles non si limita a tradurlo o commentarlo: ne mette in discussione l’autenticità testuale e, più in generale, la sua coerenza semantica. Egli afferma, senza mezzi termini, che l’opera è in larga parte “hopelessly corrupt”, ovvero irrimediabilmente corrotta, e che interi passaggi non sono altro che una “meaningless waste of time” (Candlin, 1901, p. 619).

La recensione di Candlin riporta, con un tocco di sottile ironia, uno di questi esempi emblematici: il celebre passaggio “Il passaggio della madre-abissale io chiamo radice del cielo e della terra” viene da Giles liquidato come una frase priva di qualsivoglia senso, espressione di una prosa “impazzita”, per citare lo stesso recensore, che si abbandona a un misticismo privo di appigli razionali. E se, per ammissione dello stesso Candlin, neppure le glosse di studiosi illustri come Legge o Chalmers riescono a restituire significato a questi frammenti, tanto da renderli paragonabili a “deliranti rime insensate”, allora il rifiuto gilesiano appare tutt’altro che arbitrario (Candlin, 1901, p. 619).

Eppure, l’irriverenza di Giles non si ferma al taoismo. Forse ancor più provocatorio è il suo trattamento del cuore stesso dell’ortodossia confuciana: gli Annali delle Primavere e Autunni (Chunqiu), tradizionalmente attribuiti a Confucio e ritenuti, da secoli, il fondamento della storiografia e dell’etica politica cinese. Giles non solo ne riduce drasticamente il valore letterario, ma ne mette in discussione la stessa dignità testuale, paragonandoli a un “pocket almanac”, un calendario tascabile in cui le voci si susseguono senza nesso, profondità o intento narrativo. È un giudizio che, secondo Candlin, “would make the venerable hair [of Confucian scholars] stand on end”—da far rizzare i capelli ai dotti confuciani (Candlin, 1901, p. 620). Nonostante questo, Giles riconosce valore al commentario di Zuo (Zuo Zhuan), che interpreta come un tentativo posteriore, ma efficace, di salvare il testo originario dall’inconsistenza, restituendogli una struttura e un significato coerente.

Questa tendenza a decostruire i testi fondativi della tradizione confuciana e taoista non nasce da cinismo o da un atteggiamento iconoclasta fine a sé stesso, quanto da un’idea rigorosa—quasi cartesiana—di ciò che la critica letteraria dovrebbe essere: non un atto di venerazione, ma un esercizio di discernimento. Giles non è disposto a inseguire i fantasmi dell’allegoria, né a interpretare come “sapienza nascosta” ciò che, con ogni probabilità, è solo oscurità testuale o interpolazione apocrifa. Come sottolinea Candlin, egli si oppone tenacemente a “see meaning where there is none”, e denuncia apertamente il vizio di molti esegeti di voler leggere “approvazione o condanna” in ogni sillaba degli Annali, secondo la cosiddetta “praise-and-blame theory” dell’epoca Han (Candlin, 1901, pp. 620–621).

Di particolare rilievo è la sua critica al Libro dei Mutamenti (Yijing), altro testo sacro del pensiero cinese. Giles lo definisce esplicitamente “gibberish”—un’accozzaglia di simboli e frasi prive di significato intelligibile—pur riconoscendone l’influenza culturale e religiosa nella Cina imperiale. Candlin riporta il suo scetticismo con una certa ammirazione: laddove altri sinologi, come Legge o de la Couperie, cercano chiavi interpretative esoteriche o linguistiche, Giles sceglie il rigore filologico, affermando che “no one really knows what is meant by the apparent gibberish of the Book of Changes” (Candlin, 1901, p. 621).

Alla luce di tutto ciò, appare evidente che Giles non intende distruggere la tradizione cinese, bensì liberarla dalle incrostazioni dell’esegesi dogmatica. Il suo è un gesto critico e, in fondo, profondamente rispettoso: perché solo chi prende sul serio una cultura può permettersi di metterne in discussione i miti. In questo senso, A History of Chinese Literature è un’opera che non si limita a raccontare la letteratura cinese, ma invita anche a ripensarne il canone e il metodo di studio. Giles ci insegna, in definitiva, che la venerazione non può mai sostituire l’analisi, e che la reverenza cieca è una forma di oblio mascherato da rispetto.

3. Poesia, prosa e il battito sottile dell’estetica cinese

L’altra metà del volume di Giles è dedicata all’universo vasto, ricco e policromo della poesia e della narrativa cinese, trattato con una finezza critica che coniuga filologia e gusto estetico. L’autore alterna con sapienza brevi ma illuminanti inquadramenti storici a una selezione di brani tradotti con grande eleganza formale. Secondo George T. Candlin, proprio questa capacità di Giles di restituire, nella lingua inglese, la musicalità e la compattezza del verso cinese costituisce uno dei tratti più distintivi e ammirevoli della sua opera. Nonostante la profonda distanza strutturale tra le due lingue—una, flessiva e analitica; l’altra, tonale e concisa—Giles riesce a mantenere quella “cristallinità poetica” che, nelle sue parole, “riesce ancora a cantare, anche attraverso la barriera della traduzione” (Candlin, 1901, p. 624).

Nei componimenti tratti dal Libro delle Odi (Shijing), ad esempio, emerge un sorprendente spirito di elevazione monoteistica, ben distante dall’immagine di un pensiero cinese necessariamente politeista o fatalista. Versi come “Grande è Dio, che regna in maestà” o “Come terribile è la sua potenza, Signore dell’Umanità” (Candlin, 1901, p. 621) mettono in luce una teologia implicita, o almeno una spiritualità etica, che spesso sfugge alle letture occidentali più schematiche. Al contempo, altri brani riflettono una sensibilità intimista e naturalistica di rara delicatezza: è il caso della lirica della dama Pan, che ricama su un ventaglio di seta il timore, al sopraggiungere dell’autunno, di essere dimenticata come oggetto superfluo. Un’immagine tanto semplice quanto penetrante, in cui l’esperienza soggettiva si lega all’ineluttabile transitorietà delle stagioni—tema caro alla poesia cinese di ogni epoca (Candlin, 1901, p. 625).

Giles, però, non idealizza. Anzi, non esita a riconoscere i limiti strutturali e contenutistici della poesia cinese, soprattutto dal punto di vista della tradizione lirica occidentale. La sua osservazione che tale poesia, pur raffinata, manca spesso di “fuoco, passione, ispirazione” riecheggia un giudizio critico maturo, libero da provincialismi, ma consapevole dei parametri comparativi in gioco. Candlin riprende con complicità l’immagine proposta da Giles: quella di una “lady of fashion”, una dama di buona società dai modi eleganti e sensibilità fine, ma non di una musa “scesa dagli dèi” (Candlin, 1901, p. 624). Tuttavia, aggiunge Candlin, ciò non significa che manchi varietà o profondità: anzi, la produzione poetica attraversa secoli e dinastie, adattandosi ai tempi e riflettendo temi che vanno dall’epica all’intimismo, dalla satira politica all’eremitismo spirituale.

Esemplare in tal senso è la poesia buddhista. Giles propone, ad esempio, una composizione che Candlin definisce un “ritratto perfetto di un ritiro spirituale”, ambientata in un monastero all’alba, tra pini e cipressi, dove il silenzio è rotto solo dal suono del gong rituale (Candlin, 1901, p. 625). In poche righe, si condensano atmosfera, religione, paesaggio e stato d’animo: una sinestesia poetica che unisce visione e meditazione.

Ma l’interesse di Giles non si limita alla poesia. Di grande rilievo è anche la sua analisi della narrativa e del teatro, due forme espressive che, secondo la sua periodizzazione, trovano piena maturazione sotto la dinastia Yuan (mongola). In precedenza, nella sua Gems of Chinese Literature, Giles aveva tacciato quest’epoca di decadenza immaginativa, definendola un’era di “rule and line mediocrity” (Candlin, 1901, p. 624). Tuttavia, nella sua opera maggiore, sembra correggere tale giudizio, riconoscendo che “within the century covered by Mongol rule, the Drama and the Novel may be said to have come into existence” (Candlin, 1901, p. 624). È un importante segnale di onestà intellettuale: Giles non teme di rivedere le proprie convinzioni alla luce di nuovi elementi testuali.

Tra le opere più lodate, troviamo Strange Stories from a Chinese Studio (Liao Zhai Zhi Yi), raccolta di racconti fantastici e soprannaturali che Giles traduce con cura e ammirazione. Candlin stesso definisce questi racconti “una seta finemente ricamata dall’inizio alla fine”—una metafora che rende l’idea dell’eleganza formale e dell’accuratezza stilistica con cui sono composti (Candlin, 1901, p. 626). In queste pagine, l’immaginazione si fonde con la morale, il soprannaturale con il quotidiano, il tragico con l’umoristico. E proprio in questo equilibrio Giles individua uno dei vertici dell’arte narrativa cinese: la capacità di toccare temi universali senza perdere il senso del dettaglio locale.

In conclusione, l’ampia sezione dedicata alla poesia e alla prosa non solo arricchisce il valore documentario dell’opera, ma dimostra anche la poliedricità dell’autore, capace di trattare con lo stesso rigore il testo filosofico e la lirica amorosa, il classico confuciano e la novella gotica. Giles, scrive Candlin, “non può scrivere in modo noioso nemmeno volendo”—e forse è proprio questa la sua cifra più invidiabile (Candlin, 1901, p. 618).

4. Tra ammirazione e autorità: chi racconta la storia letteraria di una civiltà?

Il merito più grande di Giles, secondo George T. Candlin, non risiede soltanto nell’ampiezza del materiale trattato o nella profondità della sua erudizione, ma nella capacità—davvero rara—di rendere la letteratura cinese leggibile, appassionante e persino seducente anche per il lettore occidentale privo di formazione specialistica. Questo risultato, tuttavia, apre un interrogativo ben più ampio, che si insinua tra le righe della recensione di Candlin e che continua ad avere una profonda risonanza nei dibattiti postcoloniali contemporanei: chi ha il diritto di raccontare la storia letteraria di una civiltà? È legittimo che un occidentale, per quanto dotato di acume critico e profonda conoscenza linguistica, si erga a interprete ufficiale di una tradizione che non gli appartiene per nascita, ma solo per adozione intellettuale? Giles parla “sulla” Cina, certamente. Ma parla anche “per” la Cina? E a quale prezzo?

Candlin, pur esprimendo sincera ammirazione per l’opera di Giles—che definisce in più punti “felice, vigorosa, insostituibile” (Candlin, 1901, p. 618)—non esita a sollevare critiche puntuali che toccano il cuore stesso della costruzione narrativa adottata. In particolare, egli osserva che la struttura cronologica dell’opera, basata rigidamente sulla successione dinastica degli imperatori cinesi, se da un lato semplifica la lettura e offre un inquadramento facilmente accessibile, dall’altro finisce per appiattire l’evoluzione interna dei generi letterari, disgregandone la continuità tematica e impedendo una visione d’insieme dello sviluppo stilistico, formale e ideologico delle opere (Candlin, 1901, p. 624). La poesia, ad esempio, compare e ricompare in modo frammentato, “sandwiched in amongst other kinds of literature”, spezzando la possibilità di tracciare una linea evolutiva coerente (Candlin, 1901).

Un’altra tensione rilevata da Candlin riguarda la posizione che Giles attribuisce a Confucio. Definire il maestro di Lu “founder of Chinese literature”, come fa Giles, rischia di scivolare in una semplificazione eccessiva e ideologicamente discutibile. Confucio, infatti, più che creatore di testi originali, fu un curatore, un ordinatore, un editore—o, per usare la felice formula di Candlin, “a transmitter, not a maker” (Candlin, 1901, p. 623). Il suo stesso modo di porsi, nel famoso parallelismo con l’antico saggio Peng, rivela un atteggiamento di umiltà editoriale più che di orgoglio autoriale. Attribuirgli la “fondazione” della letteratura cinese equivale a ignorare il carattere già stratificato dei testi su cui egli lavorò, come gli Odi, il Libro dei Mutamenti o gli stessi Annali, e a trascurare la pluralità delle voci che già popolavano il paesaggio intellettuale cinese prima della sua sistematizzazione confuciana.

C’è dunque, in Candlin, una sottile ma netta consapevolezza che l’operazione di Giles, pur animata da amore per la cultura cinese, non è priva di contraddizioni e rischi epistemologici. In un passo significativo, egli suggerisce che la letteratura di una civiltà andrebbe raccontata non solo attraverso i nomi dei sovrani sotto cui è stata prodotta, ma attraverso le voci e gli stili degli autori che l’hanno composta (Candlin, 1901, p. 624). È una proposta di riorganizzazione critica che oggi potremmo definire più “autoriale” e meno “imperiale”—più incentrata sul contenuto letterario che sulle coordinate cronopolitiche.

E tuttavia, malgrado questi limiti strutturali e ideologici, A History of Chinese Literature resta un’opera pionieristica e, per certi versi, irripetibile. Giles non fu infallibile, ma fu onesto; non fu imparziale, ma fu consapevole delle sue scelte; non fu cinese, ma amò profondamente la letteratura cinese, al punto da dedicarle una vita intera di studio, traduzione e divulgazione. In tal senso, la sua opera diventa un esempio potente di ciò che la critica letteraria può essere quando si nutre non solo di metodo, ma anche di passione. Candlin lo dice con lucidità nella chiusa del suo saggio: la letteratura cinese è “una delle più grandi imprese intellettuali della storia dell’umanità”, e Giles ha avuto il merito di restituirla alla considerazione dell’Occidente, spogliandola dei suoi travestimenti esotici e riconoscendole piena dignità di civiltà letteraria (Candlin, 1901, pp. 626–627).

In definitiva, la lezione di Giles—come quella di ogni mediatore culturale autentico—non consiste nell’offrire risposte definitive, ma nell’aprire nuovi spazi di dialogo. È questo il paradosso fecondo dell’interprete: pur non essendo “di casa”, egli riesce, talvolta, a vedere ciò che ai nativi sfugge, e nel farlo, ci restituisce una visione più nitida anche di noi stessi. A History of Chinese Literature, perciò, non è solo una storia della letteratura cinese: è anche una riflessione sulla possibilità—e sui limiti—della comprensione tra culture.

Riferimento bibliografico

Candlin, G.T. (1901). A History of Chinese Literature. The Monist, 11(4), pp.616–627. Oxford University Press.

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