L’immagine che inganna: memoria, visione e finzione in Pale Fire di Nabokov

Conall Cash esplora il ruolo destabilizzante della pittura e della fotografia in Pale Fire, mostrando come Nabokov metta in crisi la possibilità di una memoria visiva stabile e di una narrazione coerente, attraverso un’estetica frammentaria.

Indice

  1. Un lettore è un rilettore: la promessa tradita della visione istantanea
  2. Ekphrasis e inquietudine: i Picasso che non parlano
  3. Fotografia e disincanto: la memoria che punge, non consola
  4. Rileggere per perdersi: immagini, identità e il fallimento del “vero” racconto

1. Un lettore è un rilettore: la promessa tradita della visione istantanea

Nel celebre ciclo di lezioni tenuto alla Cornell University tra il 1948 e il 1959, Vladimir Nabokov affermava che “un buon lettore è, in realtà, un rilettore”, sostenendo che solo la rilettura consente un’esperienza estetica simile alla fruizione di un’opera d’arte visiva, in cui la totalità si impone all’occhio “in un colpo solo” (Nabokov 1980, 3). Questa idea di lettura-immagine — immediata, sinottica, quasi fuori dal tempo — si fonda su un’estetica dell’istantaneità contemplativa, erede tanto di Proust quanto del simbolismo. Tuttavia, nel romanzo Pale Fire (1962), lo stesso Nabokov sembra rovesciare ironicamente tale concezione, smascherandone l’illusorietà attraverso una struttura narrativa che, come osserva Conall Cash, non consente una visione d’insieme stabile ma moltiplica i punti di vista, le false piste, le epifanie deformate (Cash 2010, p. 124).

Cash propone che Pale Fire non sia affatto un testo da “guardare” come un quadro finito, ma piuttosto una “macchina narrativa contorta”, costruita con l’intenzione esplicita di destabilizzare ogni pretesa di coerenza visiva o mnemonica. La tensione tra l’ideale modernista della totalità estetica e la realtà postmoderna della frammentazione è qui portata al parossismo. Il romanzo si presenta infatti con una struttura bifronte: da un lato la poesia in versi liberi composta da John Shade, Pale Fire, dall’altro il commento espanso e iper-soggettivo a firma di Charles Kinbote — un personaggio ambiguo che si presenta come ex re dello stato fittizio di Zembla ma che, come suggerisce lo stesso apparato testuale, potrebbe essere solo una proiezione patologica o paranoica. È una composizione in cui la narrazione letterale e quella visuale si specchiano e si tradiscono a vicenda.

Nel contesto di questo apparato metatestuale, le immagini — e in particolare le immagini visive, siano esse quadri o fotografie — assumono un ruolo centrale. Cash insiste sul fatto che non vanno considerate semplici ornamenti diegetici, né tantomeno conferme simboliche di un significato sotteso, ma veri e propri “buchi neri semantici” (Cash 2010, p. 126), in cui la linearità del senso e la credibilità narrativa si disgregano. Ogni immagine descritta o evocata nel testo — come i dipinti di Picasso, le fotografie segnaletiche, gli oggetti d’infanzia — introduce un’interferenza, una frizione interpretativa, un contrasto tra ciò che si “vede” e ciò che si “crede di sapere”. Si tratta di un effetto che Cash definisce “puncturing vision”, ovvero una visione che non conferma, ma punge, come farà Barthes in Camera Lucida con il concetto di punctum (Barthes 1981, p. 26).

In particolare, Cash sottolinea che l’idea della visione come garanzia di autenticità — che sia visione poetica, visione storica, o visione mentale — viene costantemente sabotata in Pale Fire attraverso il montaggio di narrazioni incompatibili tra loro, molte delle quali veicolate proprio da oggetti visivi. L’immagine non è più evidenza, ma ambiguità; non più rivelazione, ma torsione narrativa. Questa strategia stilistica si inscrive, secondo Cash, in una più ampia riflessione sull’estetica post-auratica della modernità: le immagini riprodotte (copie, fotografie, oggetti descritti) non veicolano più un’aura, bensì un’interferenza cognitiva che frustra il desiderio di verità (Cash 2010, pp. 129–131).

Ciò che ne emerge è un’architettura testuale in cui la memoria visiva — un tempo affidabile alleata del narratore ottocentesco o dell’autore modernista — diventa un campo minato epistemologico. Le immagini si rivelano essere sintomi della disgregazione del soggetto, e non strumenti di recupero mnemonico o identitario. Non è un caso che lo stesso Kinbote — figura sdoppiata, dislocata, forse delirante — si affidi ossessivamente a immagini che dovrebbero confermare la sua versione della storia, ma che finiscono per moltiplicare i dubbi sull’affidabilità della narrazione. In questo senso, Nabokov costruisce un romanzo che funziona come una trappola per lo sguardo, in cui ogni tentativo di “vedere tutto insieme” conduce solo a una moltiplicazione di prospettive e a un’implosione della linearità temporale.

La lezione cornelliana sul lettore-rilettore viene dunque ripresa in Pale Fire solo per essere svuotata, sbeffeggiata, rivoltata. Il romanzo invita sì alla rilettura, ma non per ottenere una visione d’insieme — come auspicava Nabokov-teorico — bensì per accettare la vertigine del molteplice, il collasso dell’intenzionalità autoriale e la visione come crisi. È proprio in questa contraddizione interna, finemente svelata da Cash, che Pale Fire trova la sua dimensione più radicale: un’opera che si presenta come immagine totale ma che, ad ogni tentativo di visione, si frantuma in schegge di memoria, di desiderio, di finzione.

2. Ekphrasis e inquietudine: i Picasso che non parlano

Nel corpo centrale del commento di Charles Kinbote — che occupa la porzione più estesa del testo di Pale Fire — emergono due precisi riferimenti pittorici che assumono un valore simbolico profondo: si tratta di Still Life with Candlestick (1945) e Boy Leading a Horse (1906), entrambi di Pablo Picasso. Kinbote menziona i dipinti come parte integrante dell’arredamento di due spazi ben distinti, associati rispettivamente alla corte reale di Zembla e all’interno borghese della casa di Goldsworth, dove lui stesso vive in affitto. Come osserva acutamente Conall Cash, questi riferimenti non sono casuali né ornamentali: vengono caricati di un’intensa funzione identitaria e narrativa (Cash 2010, pp. 129–132). Nel primo caso, l’opera cubista appare come un segno di legittimazione estetica e culturale del regno immaginario di Charles Xavier; nel secondo, la tela neoclassica diventa lo schermo su cui Kinbote proietta la propria nostalgia erotizzata e la sua ansia di autenticità.

Ma ciò che potrebbe apparire, a una prima lettura, come una dichiarazione visiva di valori — cultura, raffinatezza, gusto — si rivela, sotto l’analisi di Cash, una fonte di tensione e disorientamento. I dipinti non fungono da dispositivi stabili di significato, bensì da catalizzatori di ambiguità. In particolare, Boy Leading a Horse, appartenente al periodo rosa di Picasso, è emblematico del paradosso su cui si regge gran parte della retorica visiva di Kinbote: la composizione rappresenta un giovane nudo che guida un cavallo, figura idealizzata, sospesa in uno spazio senza profondità prospettica, fuori dal tempo e dalla storia. Cash legge quest’immagine come un rifugio estetico in cui Kinbote può congelare il desiderio, rendendolo astratto e inaccessibile, proprio perché privo di coordinate genealogiche o sociali (Cash 2010, pp. 133–134). La nudità maschile non è scandalosa, ma sublimata; l’erotismo non è dichiarato, ma occultato in una forma “nobile” che lo rende tollerabile, persino spirituale.

Eppure, questa illusione di purezza si incrina nel momento stesso in cui Cash sottolinea che il quadro presente nel salotto è in realtà una riproduzione fotografica, non l’originale. È questa condizione secondaria dell’immagine — il fatto che non sia unica, non sia autentica — a smascherarne la natura fittizia: la memoria e il desiderio che essa suscita non sono meno costruiti delle fotografie familiari che Kinbote tanto disprezza. Anzi, la foto del quadro — copia di una copia — paradossalmente moltiplica il grado di falsificazione della visione. Come osserva Cash, Kinbote rimuove dall’ambiente domestico ogni traccia della famiglia Goldsworth, sostituendo i loro volti con un’icona “pura” del desiderio estetico: ma proprio questa operazione lo tradisce, rivelando la sua ossessione nel controllare l’immagine come forma di negazione della realtà (Cash 2010, pp. 134–135).

Nabokov sembra qui giocare su più livelli di ironia. Se nelle sue lezioni universitarie sosteneva la supremazia dell’immagine pittorica — perché liberata dalla sequenza temporale del linguaggio, e dunque accessibile come totalità sinottica — in Pale Fire dimostra invece quanto la pittura, almeno quando riportata in parole, venga ricondotta al tempo, alla soggettività, all’instabilità dell’interpretazione. Il meccanismo retorico che traduce il quadro in linguaggio, cioè l’ekphrasis, perde in purezza ciò che guadagna in narrazione: il quadro non è più “visto”, ma raccontato. E il racconto è inevitabilmente filtrato, modellato, distorto — in questo caso da una voce narrante il cui equilibrio psichico è più che discutibile.

Cash insiste su questo punto con forza, rilevando come la descrizione dei quadri non serva a produrre verità visiva, ma ad alimentare la mitologia personale di Kinbote, la sua auto-fiction: “The painting does not ground meaning; rather, it lifts Kinbote into the ahistorical, disembodied air of aesthetic idealism” (Cash 2010, p. 134). La pittura, in altre parole, non ancora la narrazione, ma la svincola dalla realtà. È un veicolo di fuga, non di fondazione. E se la pittura si fa racconto, allora anche il racconto — la narrazione stessa di Pale Fire — può essere letta come un quadro instabile, in cui i dettagli non si sommano a una verità coerente, ma si contraddicono e si moltiplicano in nuove figure di ambiguità.

In questa luce, l’ekphrasis smette di essere un’operazione mimetica — un modo per restituire l’immagine attraverso le parole — e diventa un atto profondamente ideologico. Descrivere un’opera d’arte, per Kinbote, non è solo interpretarla: è riscriverla, appropriarsene, reinserirla in un sistema narrativo che è del tutto autoreferenziale. Pale Fire così ci mostra che anche la visione, come la memoria, è una costruzione instabile, e che la fiducia nella purezza estetica dell’immagine visiva è una forma raffinata — e pericolosa — di autoinganno.

3. Fotografia e disincanto: la memoria che punge, non consola

Il confronto tra pittura e fotografia, centrale nell’analisi proposta da Conall Cash, raggiunge il suo apice concettuale nell’intersezione con la teoria fotografica di Roland Barthes. In Camera Lucida, opera che segna uno spartiacque nel pensiero sulla fotografia nel tardo XX secolo, Barthes distingue tra studium — l’interesse culturale, etnografico, razionale che una foto può suscitare — e punctum, ovvero quel dettaglio inaspettato, soggettivo, capace di colpirci con violenza, “that accident which pricks me (but also bruises me, is poignant to me)” (Barthes 1981, p. 27). È proprio su questa distinzione che Cash fonda la sua lettura delle fotografie presenti in Pale Fire, mostrando come Nabokov le carichi non di significato documentario, ma di tensione emotiva, di perturbazione affettiva — o, per dirla con Barthes, di punctum.

In una delle sezioni più inquietanti del commento kinbotiano, viene descritto un album fotografico appartenente al giudice Goldsworth. Non si tratta, come nel caso del quadro di Picasso, di una riproduzione di bellezza idealizzata, ma di una raccolta di immagini giuridiche: volti di criminali, mani da strangolatori, espressioni vuote o allucinate di assassini. Kinbote le guarda con crescente disagio, ma è solo una specifica fotografia — quella di un homicidal maniac — a provocargli un autentico brivido: lo sguardo di quell’uomo somiglia troppo a quello di Jacques d’Argus, che è forse un alter ego, forse una nemesi, forse semplicemente una proiezione del suo stesso delirio. Cash sottolinea come il momento del riconoscimento non confermi nulla, anzi, attivi un cortocircuito tra identificazione e allucinazione, tra verità e paranoia (Cash 2010, pp. 138–139). In questo senso, la fotografia non funziona da studium, non ci informa, non ci educa, ma ci punge — diventa punctum, ed è proprio questa lacerazione semiotica che interessa a Cash.

Barthes, nel suo saggio, osserva una fotografia del condannato Lewis Payne in attesa dell’esecuzione, e vi legge una temporalità strana, ambigua, quasi spettrale: “He is dead and he is going to die… This will be and this has been” (Barthes 1981, p. 96). La fotografia, per Barthes, è sempre memoria futura di una perdita, testimonianza visiva che ci pone di fronte all’irreparabile. In Pale Fire, Nabokov sembra evocare lo stesso paradosso temporale, ma lo fa attraverso l’interiorizzazione distorta del personaggio di Kinbote, la cui percezione del tempo è disarticolata, dislocata, come se fosse costantemente fuori fase. Le fotografie non gli offrono accesso al passato, ma lo imprigionano in una loop ossessivo: cercano di confermare la sua narrativa (di sovrano in esilio, di perseguitato, di martire), ma finiscono per contraddirla, alimentando la vertigine del sospetto e della dissociazione.

Un esempio emblematico è la fotografia in cui il giovane Charles — cioè il Kinbote fanciullo — stringe tra le mani un aereo di cioccolato. A prima vista, potrebbe sembrare una scena tenera, persino banale, un frammento di affetto familiare. Ma Cash ci invita a leggerla come una capsula temporale disturbante: l’aereo di cioccolato non è solo un dolce, ma un presagio narrativo. Il padre del bambino morirà, infatti, proprio in un monoplano: la foto è dunque retrofuturista, mostra qualcosa che è già stato e che sarà, in perfetta sintonia con la temporalità bifronte del punctum barthesiano (Cash 2010, pp. 143–144). Non è un’immagine che ci parla, ma che ci trafigge; non ci rassicura, ma ci espone a una perdita già compiuta, a una colpa forse rimosso, a un trauma non elaborato.

Inoltre, Kinbote osserva la fotografia come se potesse estrarne un significato definitivo, una verità interiore. Ma, come sottolinea Cash, questa presunta “verità fotografica” è anch’essa manipolata, filtrata, narrativizzata. Nabokov costruisce il momento della visione fotografica come un fallimento epistemologico: l’immagine non rivela, non conferma, non ancora il reale. Semmai lo incrina. Il desiderio di Kinbote di controllare l’immagine — di usarla come strumento per fondare il proprio racconto — viene frustrato, perché l’immagine non obbedisce. Anzi, lo guarda, lo interroga, lo minaccia. L’oggetto visivo si trasforma in soggetto minaccioso. La fotografia — come aveva intuito Susan Sontag — “is a grammar and, even more importantly, an ethics of seeing” (Sontag 1977, p. 3). In Pale Fire, tale grammatica è instabile, e l’etica della visione si capovolge: chi guarda è guardato, e giudicato.

In definitiva, l’uso delle fotografie in Pale Fire non serve a consolidare una memoria, ma a mostrarne la labilità, la contaminazione, la deriva soggettiva. Sono dispositivi narrativi che non catturano il tempo, ma lo moltiplicano, lo deformano. Cash riesce così a dimostrare come Nabokov, ben lontano dal fidarsi dell’immagine fotografica come documento, la consideri piuttosto un trompe-l’œil della coscienza: qualcosa che sembra mostrare, ma in realtà dissimula, devia, incide — e lascia ferite aperte nel tessuto già fragile della narrazione.

4. Rileggere per perdersi: immagini, identità e il fallimento del “vero” racconto

Conall Cash chiude la sua analisi con una tesi che, pur non espressa in forma programmatica, si impone con forza: le immagini in Pale Fire non risolvono, ma disgregano; non chiariscono, ma ingarbugliano; non attestano, ma ingannano. Questo principio vale sia per le fotografie che per i dipinti, ma anche per le memorie descritte da Kinbote, che spesso assumono una forma visiva nel testo, come tableaux mentali. L’idea ossessiva che attraversa tutto il commento di Kinbote — cioè che una prova definitiva della sua identità regale possa emergere sotto forma di oggetto visibile, di segno incontestabile (una voce, una somiglianza, un’immagine) — viene sistematicamente messa in crisi dal dispositivo narrativo stesso, che la moltiplica fino a renderla parodia.

Emblematico, in tal senso, è l’aneddoto posto verso la fine del commento, in cui un misterioso professore tedesco, osservando Kinbote da lontano, sostiene di riconoscere in lui il legittimo sovrano esiliato di Zembla, Charles Xavier. A suggerirglielo sarebbero la voce, il portamento e, in modo ancora più significativo, una fotografia. Ma come osserva con fine ironia Cash, questo episodio — che dovrebbe rappresentare la consacrazione finale dell’identità kinbotiana — non produce nessuna verità verificabile. Al contrario: appare come l’ennesima scena costruita ad arte, l’ennesimo mise-en-scène che proietta nel testo una conferma tanto desiderata quanto implausibile (Cash 2010, p. 147). Il riconoscimento è un atto teatrale, e la fotografia non è una prova, ma un’eco indistinta, una maschera riflessa. L’intera scena funziona come uno specchio opaco, come uno di quegli specchi veneziani tinti d’argento che riflettono immagini sfocate e sfalsate, restituendo più fantasmi che figure.

Questa anti-rivelazione finale porta Cash a una conclusione teorica radicale: non esiste un “vero” racconto di Pale Fire. Ogni strato testuale, ogni immagine descritta o ricordata, ogni documento apparentemente “oggettivo” è in realtà contaminato da una sovrapposizione di finzioni. La lettura non è un percorso di chiarificazione progressiva, ma un’avventura nella vertigine interpretativa, nella proliferazione semiotica, nel collasso della referenzialità. In questa direzione, Cash si distanzia da approcci che cercano di stabilire chi “ha scritto davvero cosa” — come nei tentativi di attribuire la paternità dell’intera opera a Shade, a Kinbote, o a un terzo autore implicito — per abbracciare una prospettiva più affine alla tradizione poststrutturalista.

Autori come Michael Wood (1994) e Maurice Couturier (1999) hanno già evidenziato come Pale Fire funzioni non tanto come un’opera da interpretare, ma come una macchina che produce interpretazioni senza mai esaurirsi, senza mai chiudersi in una totalità. Tuttavia, Cash vi aggiunge un elemento originale e potente: l’immagine — normalmente considerata simbolo di immediatezza, di trasparenza, di verità intuitiva — si rivela, in Nabokov, un abisso mimetico. È proprio nella pretesa di rendere “visibile” il reale che l’immagine si corrompe, si complica, si perde.

È questa la forza destabilizzante del punctum: mentre il studium ci offre coordinate culturali, storiche, razionali, il punctum ci ferisce, ci confonde, ci trascina in una dimensione in cui il senso si fa opaco. Le immagini in Pale Fire sono tutte punctum, mai studium. Non organizzano il racconto, ma lo lacerano. Non costruiscono un’identità, ma la mettono in crisi. Kinbote stesso ne è vittima: si aggrappa all’immagine come àncora ontologica, ma l’immagine lo respinge, lo sdoppia, lo deride.

Cash, dunque, non solo rilegge Pale Fire attraverso il prisma della visualità, ma ci mostra come la visualità stessa — lungi dall’essere una finestra sul mondo — sia un dispositivo retorico, ambiguo, profondamente letterario. È in questo scarto, tra ciò che si vede e ciò che si crede di vedere, che Nabokov orchestra una delle più complesse riflessioni sulla finzione come condizione della percezione. La visione, come la memoria, è sempre un’illusione strutturata: e in Pale Fire, Nabokov ci invita a guardare non per comprendere, ma per perdere l’innocenza del vedere.

Riferimenti bibliografici

Cash, C. (2010). Picturing Memory, Puncturing Vision: Vladimir Nabokov’s Pale Fire. In: Leving, Y. (ed.) The Goalkeeper: The Nabokov Almanac. Boston: Academic Studies Press, pp. 124–147.

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