Verità, finzione e Mari del Sud: rileggere Herman Melville attraverso la lente di Chasles

La recensione di Philarète Chasles, apparsa nel 1849 sulla Revue des Deux Mondes, esamina Typee, Omoo e Mardi di Melville come opere ibride tra viaggio, allegoria e satira. Questo articolo ne rilegge l’impatto critico.

Indice

  1. Introduzione – Melville il mitopoieta
  2. Typee e il miraggio dell’autenticità etnografica
  3. Mardi come allegoria: tra panteismo e parodia
  4. L’eredità di Chasles e la nascita di una critica transatlantica

1. Introduzione – Melville il mitopoieta

In un’epoca di passaggio, in bilico tra il disincanto razionalista dell’Illuminismo e il fascino incantato dell’esotismo romantico, Herman Melville fa irruzione sulla scena letteraria con opere che sembrano progettate non solo per raccontare, ma per mettere in crisi le convenzioni narrative stesse. Tra il 1846 e il 1849, lo scrittore americano pubblica Typee, Omoo e Mardi—tre testi che sfuggono a ogni classificazione netta, tre viaggi “reali e fantastici” che portano il lettore nelle profondità del Pacifico e nelle pieghe più oscure della coscienza occidentale.

Ma come leggere questi testi? Come collocarli in un orizzonte critico ancora privo delle categorie moderne di autofiction, metanarrazione, scrittura antropologica? È a questo interrogativo che prova a rispondere Philarète Chasles, autorevole intellettuale francese, con una lunga e ambiziosa recensione pubblicata il 15 maggio 1849 sulla Revue des Deux Mondes, intitolata: “Littérature anglo-américaine. Voyages réels et fantastiques d’Hermann Melville. Typee. — Omoo. — Mardi”.

Il valore del saggio non risiede soltanto nell’analisi letteraria, ma nella sua capacità di affrontare Melville come un enigma culturale, simbolico, perfino ontologico. Chasles si pone subito una domanda cruciale: chi è davvero Hermann Melville? Uno scrittore o un impostore? Un romantico allucinato o un etnografo di genio? Un mistificatore o un memorialista sincero? “Je ne le comprenais pas après l’avoir lu, je le comprenais encore moins après l’avoir relu”, scrive, disorientato e affascinato da un’opera che sembra “n’avoir au monde aucune raison d’être” (Chasles, 1849, p. 542). È proprio da questo spaesamento che nasce la sua lettura più originale: Melville non va interpretato né come semplice viaggiatore né come romanziere, ma come un mitopoieta—un autore che costruisce mondi narrativi capaci di fondere l’esperienza sensoriale con l’elaborazione simbolica.

In effetti, Chasles è uno dei primi critici europei a riconoscere in Melville una figura che anticipa la sensibilità modernista: “type du caractère anglo-américain, vivant pour la sensation et par elle”, lo definisce (p. 545). In Melville convivono l’impulso all’azione e il desiderio di contemplazione; l’immaginazione selvaggia del marinaio e la coscienza riflessiva del filosofo. Ed è proprio questo dualismo che rende le sue opere indecifrabili alla critica del tempo—una critica che, come nota Chasles con ironia, non sa se ridere o piangere di fronte a un autore così eccessivo, così “sans goût”, così “vulgaire et éclatant à la fois” (p. 541-542).

Ma non è tutto: nella sua recensione, Chasles si muove anche sul terreno della filologia investigativa, cercando di smascherare o confermare la veridicità di quanto raccontato da Melville. Analizza l’apparizione del personaggio Toby, compagno di fuga del narratore in Typee, e ne verifica l’esistenza attraverso fonti americane (p. 544-545). Si informa sulla biografia dell’autore, ne ricostruisce l’infanzia, il matrimonio, perfino l’albero genealogico. E, infine, giunge a una conclusione che è insieme storica e poetica: Melville non inventa—ricorda. La sua fantasia non è una costruzione arbitraria, ma una memoria trasfigurata: “jamais il n’aurait inventé les étranges scènes qu’il a décrites” (p. 546).

Questa rilettura si rivela straordinariamente attuale. In un’epoca come la nostra, in cui i confini tra vero e falso, tra reportage e narrazione, tra viaggio e immaginazione sono sempre più porosi, Chasles appare come un precursore inconsapevole della critica postmoderna. Egli comprende che Typee, Omoo e Mardi non sono solo racconti di viaggio, ma sono—come li definirebbe oggi un antropologo—“testi etnopoetici”, in cui l’autore racconta se stesso attraverso l’alterità, e racconta l’alterità attraverso il proprio sguardo.

Pertanto, questo articolo si propone di tornare su quella lettura pionieristica, di esplorarne le intuizioni, ma anche di situarla all’interno del dibattito critico contemporaneo. Non per celebrare un critico del passato, ma per mostrare come, talvolta, lo sguardo più lungimirante non è quello del futuro, ma quello che ha saputo leggere il presente prima degli altri.

2. Typee e il miraggio dell’autenticità etnografica

Il cuore pulsante dell’analisi di Chasles è Typee, opera d’esordio di Melville e primo tassello della sua esplorazione letteraria dei mari del Sud. Apparso nel 1846, Typee racconta, in forma narrativa, il presunto soggiorno dell’autore tra i Taïpii, una tribù delle Isole Marchesi ancora poco nota agli europei. Già al momento della pubblicazione, il libro fece scalpore: troppo vivido per essere finto, troppo eccessivo per essere vero. La critica americana si divise: per alcuni era una semplice frode letteraria, un hoax ben costruito; per altri, un’opera visionaria da prendere sul serio. Ma è nella lettura di Chasles che troviamo un’interpretazione più sottile e radicale.

Chasles rifiuta con decisione la riduttiva etichetta di “romanzata menzogna”, così cara ai critici anglosassoni, e si oppone all’idea che Melville sia un “plaisant” senza profondità. Egli riconosce, certo, una scrittura talvolta disordinata, “mal écrite et mêlée de pages éclatantes” (Chasles, 1849, p. 542); ammette il carattere composito, contraddittorio, persino “incohérent” del testo. Ma vede proprio in questa apparente disarticolazione la traccia di un processo percettivo autentico, alimentato non dalla razionalità fredda del cronista, ma dal coinvolgimento febbrile del testimone. Typee non descrive il mondo, lo trasfigura, perché ciò che Melville racconta non è un viaggio nello spazio, ma un viaggio nella percezione: “il y avait là un cachet de vérité, une saveur de nature inconnue et primitive, une vivacité d’impressions qui me frappaient” (p. 543).

A colpire Chasles, infatti, non è tanto l’intreccio degli eventi quanto la densità delle immagini. Ogni descrizione naturale, ogni gesto rituale, ogni volto polinesiano restituisce un mondo che pare simultaneamente concreto e onirico, fisico e visionario. Ecco allora che la celebre formula melvilliana del protagonista “mangiato di carezze” (“mangé de caresses”) prima di rischiare di esserlo letteralmente, diventa agli occhi di Chasles una metafora dell’ospitalità ambigua, dolce e minacciosa, che caratterizza tutto il romanzo (p. 543). La valle tropicale è un Eden e una trappola, un rifugio erotico e un altare sacrificale. L’altro, il selvaggio, è insieme salvatore e carnefice.

Per questo motivo, Chasles afferma che il libro, nella sua “bizzarria” e nel suo “mélange de faits intéressants et de rabâchage”, sembrava “n’avoir au monde aucune raison d’être” (p. 542). Ma è proprio questa assenza di funzione evidente, questa forma aperta, che gli permette di resistere alle categorie troppo nette di vero e falso. Typee diventa così, agli occhi del critico francese, la narrazione involontaria di un trauma culturale: quello di un giovane americano che, gettato nel cuore del Pacifico, si confronta con una civiltà radicalmente altra, e in essa riflette—o deforma—la propria identità.

I Taïpii non sono semplici personaggi esotici, ma specchi deformanti, proiezioni alterizzanti dell’inquietudine occidentale. Chasles, lucido, lo dice chiaramente: Melville è il ritratto vivente del carattere anglo-americano, “vivant pour la sensation et par elle, curieux comme un enfant, aventureux comme un sauvage” (p. 545). Typee è dunque il teatro di una duplice scoperta: quella del “selvaggio” come corpo erotico e sacro, e quella dell’“io occidentale” come fragile, vulnerabile, incompleto.

Ancora più significativa è la reazione sociale descritta da Chasles: mentre il pubblico americano ride, si scandalizza, o scarta l’opera come un semplice divertissement, lui invita alla serietà critica. Non cede né alla condanna puritana né al compiacimento romantico. Non lo seduce l’idillio tropicale, ma neppure lo allontana il sospetto di cannibalismo: “Il avait eu pour se distraire l’Opéra, la poésie indigène, le bal et la conversation des bayadères les plus distinguées… Nourri et amusé aux frais de l’État, il avait failli être mangé” (p. 543). La forza del testo non sta dunque nella veridicità documentaria, ma nella coesistenza disturbante di piacere e pericolo.

Infine, Chasles afferma che Typee possiede, nonostante i suoi difetti, una qualità fondamentale che manca a molti autori ben più ordinati: la vita. “Toute cette peinture a le mérite de reproduire vivement la réalité”, scrive commentando una delle scene più drammatiche della fuga nella giungla (p. 549). Ed è questo, forse, l’aspetto più sorprendente del suo giudizio: nel momento in cui l’Europa coloniale cercava di ridurre l’alterità a oggetto di studio, Chasles riconosce nell’opera di Melville la verità instabile e soggettiva del contatto umano, con tutte le sue contraddizioni, paure e meraviglie.

3. Mardi come allegoria: tra panteismo e parodia

Con la pubblicazione di Mardi nel 1849, Herman Melville compie una svolta radicale. Dopo Typee e Omoo, romanzi di viaggio in cui la narrazione conserva ancora un legame con l’esperienza empirica, Mardi si presenta come un’opera decisamente altra: una costruzione allegorica, filosofica, visionaria, che abbandona del tutto i vincoli del reportage per immergersi nei territori della speculazione metafisica e della satira cosmica.

Philarète Chasles è tra i pochissimi, nella critica dell’epoca, a cogliere l’eccezionalità e la sfida che quest’opera rappresenta. Fin dalle prime righe della sua recensione, ne sottolinea il carattere assolutamente anomalo: “Œuvre inouïe, digne d’un Rabelais sans gaieté, d’un Cervantes sans grâce, d’un Voltaire sans goût…” (Chasles, 1849, p. 541). Una definizione tanto ironica quanto affascinata, che restituisce la stranezza strutturale del romanzo—libro di pensiero travestito da avventura, libro di sogni costruito come un labirinto di idee.

Il riferimento a Rabelais, e in particolare al suo Pantagruel, è tutt’altro che casuale. Come l’opera del curato di Meudon, anche Mardi si presenta come un “romanzo-sistema”, in cui ogni episodio è un’allegoria, ogni dialogo una dissertazione, ogni isola un’ipotesi morale o teologica. Si susseguono pagine fitte di riferimenti mitologici, escursioni linguistiche stravaganti, riflessioni sull’arte, sulla verità, sulla religione, sul potere, sul nulla. Non vi è trama coerente, né uno sviluppo lineare: Mardi è, come scrive Chasles, “le rêve d’un mousse”, il sogno di un giovane marinaio trascinato tra visioni e incubi (p. 542).

Ma il sogno, in questo caso, ha una tinta scura. Dietro la fantasmagoria verbale e la ricchezza dell’invenzione, Chasles coglie qualcosa di più profondo, e di più inquietante: un’ombra. Sotto la superficie colorata del testo, si nasconde un’inquietudine radicale, un senso di smarrimento che non è solo narrativo, ma esistenziale. Mardi, scrive, è il frutto di “un mousse qui a mal fait ses études, qui s’est enivré de haschisch, et que le vent balance au sommet d’un mât pendant une nuit chaude des tropiques” (p. 542). L’immagine è paradossale, certo, ma anche straordinariamente precisa: ci restituisce l’idea di un autore in bilico, sospeso tra la vertigine del pensiero e l’ebbrezza del linguaggio, tra l’altezza della speculazione e la deriva del nonsenso.

Non si tratta, per Chasles, di un semplice fallimento artistico o di un capriccio estetico: Mardi è il grido disilluso di un’anima che ha perduto la fede nell’innocenza, e forse anche nella ragione. Melville non cerca più di raccontare il mondo esterno; cerca di esplorare quello interno, e lo fa con i mezzi di un uomo che ha vissuto troppo, troppo in fretta, troppo intensamente. Il mare non è più uno spazio da navigare, ma un abisso mentale; l’isola non è più un approdo, ma una metafora della solitudine. Mardi è il poema dell’inquietudine.

Ed è proprio qui che la lettura di Chasles si fa straordinariamente lucida e anticipatrice. Se i contemporanei bollano l’opera come un eccesso di immaginazione, come una farsa erudita, come il delirio di un americano troppo ambizioso, lui intuisce che Mardi è un’opera di frontiera, destinata non al piacere del lettore ma alla sua dislocazione. “Œuvre extraordinaire et vulgaire, sensée et insensée”, la definisce con una formula che abbraccia il paradosso invece di respingerlo (p. 542). Ed è proprio in questa contraddizione—tra sublime e grottesco, tra verità e parodia—che risiede il cuore dell’opera.

Nel mare di Mardi, Melville naviga senza bussola, o meglio, con una bussola impazzita: ogni isola toccata nel racconto è un’allegoria fallita, ogni personaggio una maschera che non convince, ogni filosofia una risposta incompleta. Ma è proprio attraverso questo percorso di fallimenti successivi che emerge un senso più profondo: quello di una ricerca, di un pellegrinaggio intellettuale che non porta a una verità assoluta, ma alla consapevolezza della sua assenza.

Chasles, lettore visionario, non cerca di risolvere il mistero. Non cerca risposte semplici, non cerca morale. Riconosce in Mardi non un romanzo sbagliato, ma un esperimento radicale, una meditazione sul limite stesso della letteratura. In un’epoca dominata dalla forma, dalla coerenza, dalla misura, egli osa dire che la verità, forse, si trova proprio là dove lo stile traballa, dove la narrazione si rompe, dove il pensiero diventa febbre. E così, senza proclami ma con chiarezza, traccia una delle prime letture moderne del romanzo moderno.

4. L’eredità di Chasles e la nascita di una critica transatlantica

Il merito più profondo, e forse meno riconosciuto, dell’intervento di Philarète Chasles risiede nella sua straordinaria lungimiranza critica. In un momento storico in cui la letteratura americana era ancora vista con sospetto nelle capitali culturali d’Europa, e in cui le opere di Melville venivano lette o come resoconti esotici o come bizzarrie da salotto, Chasles intuisce, con oltre un secolo di anticipo, la vera natura ambivalente della scrittura melvilliana. Una scrittura che documenta ma reinventa, che giudica ma sogna, che descrive ma si lascia sedurre. Una scrittura, in sintesi, che non si accontenta di rappresentare il mondo, ma lo ri-crea.

In un passaggio rivelatore del suo saggio, quasi profetico nella sua formulazione, Chasles scrive: “Vous voyez le mensonge où est la vérité et la vérité où est le mensonge” (Chasles, 1849, p. 546). Ecco, racchiusa in una sola frase, la definizione perfetta della letteratura moderna. Dove finisce il reportage? Dove comincia la fiction? Cosa è veramente accaduto, e cosa è stato scritto per sembrare vero? Domande che oggi ci sembrano familiari, quasi inevitabili, ma che nel 1849 pochi erano disposti a porsi, tanto meno in rapporto a un autore americano.

Chasles, invece, comprende che Melville non va letto alla stregua degli esploratori come Cook, né dei missionari moralizzanti come Ellis o Earle. Melville non documenta: interroga. Non evangelizza: oscilla. Non giudica il mondo esotico che descrive, ma si lascia trasformare dal suo incontro con l’altro. Così facendo, diventa testimone non già del mondo polinesiano, ma dell’ambiguità epistemologica dell’Occidente stesso. In Melville, l’Occidente si specchia nel “selvaggio” non per dominarlo, ma per misurare la propria disillusione, la propria sete di senso, la propria frattura interiore.

Ecco perché la recensione di Chasles, letta oggi, anticipa in modo sorprendente molte delle intuizioni che sarebbero poi emerse con la critica postcoloniale del Novecento. Laddove i lettori del tempo cercavano la mappa di una valle perduta o le coordinate di una cultura primitiva, Chasles scorge già le coordinate simboliche di un’esplorazione più profonda: quella dell’identità, del desiderio, del potere. Le isole di Melville non sono solo luoghi reali: sono figure liminali, soglie tra mito e memoria, tra storia e invenzione. I selvaggi di Typee e Omoo non sono semplicemente “altri”, ma incarnazioni dell’“io scisso” dell’America giovane, espansionista e inquieta.

Lo stesso linguaggio usato da Chasles rivela questa consapevolezza. Quando parla di “cannibali filosofes”, di “hôtellerie gastronomique et perfide” (p. 543), o ancora quando definisce Mardi “une gavotte fantastique avec Spinoza escorté de Gargantua” (p. 541), egli non sta solo giocando con lo stile: sta denunciando la crisi di ogni cornice razionale in grado di contenere l’esperienza del Nuovo Mondo. Sta suggerendo, in filigrana, che la letteratura americana—quella vera, quella di Melville—non si lascia rinchiudere nei confini del genere o nella linearità del pensiero.

Ecco allora perché il lettore contemporaneo, europeo o americano, dovrebbe tornare a leggere Typee, Omoo e Mardi non come romanzi d’avventura, ma come documenti antropologici deviati, come esperimenti linguistici e narrativi in cui il viaggio geografico si trasforma in autoanalisi. Sono testi liminali, soglie mobili tra etnografia e simbolismo, tra mito personale e inconscio culturale. E leggere Chasles oggi non significa solo riscoprire un critico brillante del XIX secolo, ma riconoscerlo come il primo interprete europeo del Melville delle origini, colui che seppe leggere dove altri giudicavano, che seppe ascoltare dove altri deridevano.

In definitiva, Chasles non è solo un recensore: è un precursore. Ha dato forma, con l’intuizione e il coraggio di chi scrive nel presente guardando al futuro, a un modello di lettura capace di accogliere l’ambiguità, l’eccesso, la dissonanza. E forse, tra tutte le lenti critiche possibili, è proprio questa—la sua—quella che ancora oggi ci permette di avvicinare Melville senza tradirlo.

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