L’abisso dell’anima: Un’indagine psicoanalitica su Edgar Allan Poe

Questo saggio esplora l’universo psichico di Edgar Allan Poe attraverso l’analisi psicoanalitica di Lorine Pruette, indagando i legami tra genio, nevrosi, melanconia e la fascinazione per la morte e la bellezza.

Indice:

  1. Origini contorte: ereditarietà, abbandono e il “destino” di Poe
  2. Il desiderio di amore e il rifiuto del reale
  3. La poetica della morte e della bellezza: eros e thanatos
  4. Nevrosi, sadismo e masochismo: una mente dilaniata dal desiderio di potere

1. Origini contorte: ereditarietà, abbandono e il “destino” di Poe

La traiettoria esistenziale di Edgar Allan Poe appare, fin dalle sue prime battute, inscritta in una spirale discendente che si configura come destino ineluttabile. Lorine Pruette, nel suo studio psicoanalitico del 1920, apre la sua analisi sottolineando come l’intera vita di Poe costituisca “un triste resoconto di quel ‘disastro’ che lo seguì inesorabilmente” fino a consumarlo del tutto (Pruette, 1920, p. 370). Non si tratta qui di mera retorica romantica, ma del riconoscimento di una condizione esistenziale e patologica che affonda le radici nell’infanzia e, più ancora, nella costituzione biologica ed ereditaria dell’autore. Pruette insiste con decisione sull’ambiente familiare come incubatore di squilibri: un padre fisicamente e intellettualmente debole, “consunto dalla tubercolosi”, una madre dotata di una “natura sensitiva, nervosa, isterica” (p. 371), una sorella “ritardata mentale”, un fratello “schiavo dell’alcolismo e dell’indolenza”. Questo quadro familiare non offre soltanto una cornice di infelicità sociale, ma prefigura una predisposizione organica al fallimento psichico, configurando ciò che Pruette definisce senza mezzi termini “una netta inferiorità organica” (p. 372).

L’infanzia di Poe, se pur segnata da un’intelligenza precoce e da un’eccezionale sensibilità, è permeata da un senso di abbandono e di esclusione che mina ogni possibilità di strutturare un sé coeso. Rimasto orfano in tenera età, egli viene affidato alla famiglia Allan, che però non assume mai completamente un ruolo affettivo solido. In questo contesto di accoglienza parziale, Poe si trova a essere un “figlio adottivo”, tollerato più che amato, educato ma non integrato. Pruette è chiara nel sottolineare come Mr. Allan, pur garantendogli una formazione, non riuscì mai a offrirgli ciò di cui aveva realmente bisogno: “più denaro che affetto” (p. 372). Questo disequilibrio alimenta una sete di approvazione che si trasforma in un tratto distintivo della sua personalità adulta, segnando profondamente anche le sue relazioni affettive e il suo rapporto con l’autorità. Poe svilupperà, infatti, una forma particolare di narcisismo ferito, in cui l’orgoglio e la teatralità diventano meccanismi difensivi contro un’intima sensazione di inadeguatezza.

La questione dell’adozione diventa, nel racconto biografico tracciato da Pruette, una ferita simbolica permanente. Se da un lato Poe tentò disperatamente di conformarsi al modello borghese proposto dalla famiglia Allan, dall’altro rigettò ogni forma di disciplina sociale che ne derivava. Ne risultò una vita di oscillazione tra ribellione e ricerca di approvazione, in cui il desiderio di essere riconosciuto come genio veniva continuamente frustrato dall’incapacità di mantenere relazioni stabili o carriere convenzionali. Questo conflitto è ben evidenziato dalla sua difficile permanenza a West Point, dove fu infine espulso: “non poteva tollerare l’autorità né la subordinazione” (p. 374). È il segno, ancora una volta, di una personalità che alterna ambizione smodata e autodistruzione sistematica.

Pruette collega questi comportamenti alla struttura psichica di Poe, descrivendo un individuo in costante fuga dal principio di realtà. Le difficoltà relazionali, il ricorso all’alcol, l’ostinata ricerca di riconoscimento letterario, tutto confluisce in un quadro che oggi potremmo definire come nevrosi grave con tratti ossessivi e narcisistici. Ma ciò che rende unica l’analisi di Pruette, ancor più se letta oggi a distanza di un secolo, è la sua capacità di cogliere l’intreccio tra biologia, psiche e creatività. Poe non è solo un uomo malato, ma un artista la cui poetica nasce proprio da quella lacerazione interna che lo perseguita sin dalla culla.

La nozione stessa di “destino”, che Pruette riprende nella sua apertura, non è da intendersi in senso deterministico, bensì come il progressivo compimento di una traiettoria interiore già tracciata nei primi anni di vita. Il disastro che lo segue, come un’ombra, è l’eco di un’anima che non ha mai trovato un appiglio stabile, né familiare né affettivo, e che ha tradotto questa mancanza radicale in una poetica della perdita, dell’assenza e della dissoluzione. Lungi dal romanticismo dolciastro che ha spesso caratterizzato certe letture novecentesche dell’autore, la visione di Pruette restituisce un Poe tragico, scisso, vittima e regista del proprio abisso.

L’eredità psichica, dunque, non è solo materiale genetico, ma anche ambiente emozionale, vissuto relazionale e narrazione personale. Poe interiorizza un’identità di figlio rifiutato, trasformandola in dispositivo creativo e autodistruttivo allo stesso tempo. La sua arte nasce da questa impossibilità radicale di appartenenza: né pienamente figlio, né compiutamente uomo sociale, egli si costituisce come figura liminale, che solo nella letteratura riesce a ricomporsi, seppur temporaneamente. Come osserva Pruette, “egli cercava l’amore come una droga, eppure lo sabotava ogni volta che lo riceveva” (p. 378). La contraddizione è il suo ambiente naturale, la perdita la sua costante.

In definitiva, quello che Pruette mette a fuoco in modo pionieristico — anticipando molte intuizioni della psicologia del profondo — è che la sensibilità patologica di Poe non è un incidente, ma il nucleo generativo della sua opera. L’orfano inadatto alla vita borghese, lo scrittore respinto dalla critica, l’amante disperato, il figlio mai adottato davvero: tutte queste figure si fondono in un’unica matrice narrativa e psichica che diventerà il centro gravitazionale della sua estetica e della sua esistenza. È in questa tensione irrisolta tra bisogno d’amore e terrore dell’intimità, tra eredità biologica e destino letterario, che va cercata la radice più profonda del genio di Poe.

2. Il desiderio di amore e il rifiuto del reale

L’universo affettivo di Edgar Allan Poe si costruisce come una fragile architettura sospesa tra desiderio e negazione. Fin dall’adolescenza, egli appare votato a una forma di estraniamento dal mondo che non è solo evasione, ma un deliberato rifiuto del reale, una sostituzione sistematica della concretezza quotidiana con il sogno, con l’ideale, con la proiezione immaginativa. Lorine Pruette coglie con precisione questo dato, affermando che già in giovane età si delineava nella mente di Poe “la trilogia che lo ossessionerà per tutta la vita: morte, amore e bellezza” (Pruette, 1920, p. 371). È un triangolo psichico che si riproporrà in tutta la sua opera, ma che trova le sue radici in un bisogno profondo: quello di amare e di essere amato, pur senza mai riuscire a reggere il peso della relazione reale, incarnata.

L’adolescente Poe, come lo descrivono le fonti biografiche riprese da Pruette, è una figura già segnata da una forte solitudine. Non riesce a costruire rapporti paritari con i coetanei; la sua sensibilità esasperata, la sua intelligenza precoce e il suo orgoglio lo isolano in un mondo proprio, che gli altri faticano a condividere. Un suo compagno di scuola lo definisce “capriccioso, imperioso, incline all’orgoglio” (p. 373), ma più che un carattere arrogante, si trattava probabilmente di un meccanismo di difesa: un narcisismo compensatorio costruito per coprire una vulnerabilità estrema. Poe non si proteggeva dietro il silenzio, ma dietro una teatralità esibita, un’apparente sicurezza di sé che mascherava il terrore dell’esclusione.

Il desiderio d’amore di Poe non si declina mai in forme realistiche. Non cerca il rapporto tra pari, ma l’unione assoluta, la fusione, l’adorazione. Le figure femminili da lui amate, nella vita come nei testi letterari, sono spesso eteree, distanti, angelicate. L’oggetto d’amore è, in realtà, un ideale, non una persona. L’altro non viene riconosciuto nella sua autonomia e alterità, ma è usato come specchio narcisistico, come superficie di proiezione. Ecco perché Pruette interpreta il matrimonio con la giovane cugina Virginia – celebrato quando lei aveva appena quattordici anni – non come un’espressione di passione o desiderio sessuale, ma come “una ricerca inconscia di protezione materna” (p. 379). Virginia, fragile, malata, dipendente, diventa per Poe una figura che unisce la sorella, la madre e la sposa, cioè tutte le relazioni primarie condensate in un’unica persona, ma sempre sotto l’egida dell’inaccessibilità.

Questa ambiguità nella relazione affettiva, che oscilla tra idealizzazione e annullamento, si riflette con forza nella dinamica dell’attaccamento: Poe non amava in senso pieno, ma desiderava essere adorato. Come afferma Pruette con lucidità, “desiderava essere amato più che amare” (p. 379). L’amore, per lui, era una necessità narcisistica, una forma di validazione ontologica, e non un incontro tra soggetti. In questo senso, ogni relazione diventava precaria, perché caricata di aspettative impossibili da realizzare, in cui l’altro era destinato a deludere o a dissolversi nella morte. Non sorprende, dunque, che la morte diventi spesso l’unica garanzia della fedeltà assoluta dell’amata, come se solo la dissoluzione fisica potesse garantirne la purezza immacolata.

L’elemento onirico che attraversa tutta la produzione poetica e narrativa di Poe nasce proprio da questo desiderio inconciliabile: amare senza esporsi alla vulnerabilità. In Poe l’amore non è vissuto, ma immaginato; non è vissuto nella reciprocità, ma desiderato come stato assoluto. Le sue poesie non cantano la passione, bensì il lutto; non celebrano l’unione, ma la perdita. È significativo che in testi come Annabel Lee o The Raven, l’amata sia già morta o perduta, quasi che l’unico amore possibile sia quello che non può più rispondere, che non può più deludere. Così, la perdita diventa garanzia di idealizzazione, la morte sancisce l’immutabilità del sentimento.

La psicoanalisi moderna potrebbe leggere in questa dinamica una fissazione edipica non risolta: l’impossibilità di elaborare il lutto originario della madre – morta quando Poe aveva appena due anni – lo conduce a riprodurre relazioni in cui la donna amata è sempre legata alla morte, alla malattia, alla fragilità. In questo senso, l’unione con Virginia non rappresenta solo una scelta affettiva, ma anche un’architettura simbolica: un modo per congelare l’oggetto d’amore in uno stato di dipendenza assoluta, in una condizione che ne impedisse l’autonomia e dunque anche il tradimento o l’abbandono.

A livello biografico, Pruette nota come Poe fosse attratto da donne che potessero idealizzarlo, sostenerlo, compatirlo, ma non lo sfidassero realmente. Le relazioni che non rispondevano a questa dinamica tendevano a spezzarsi bruscamente o a degenerare in dramma. Il bisogno di amore era smisurato, ma non tollerava la reciprocità autentica. In altre parole, Poe cercava nell’altro non un essere umano, ma un garante del proprio valore ferito, un custode del proprio io frammentato.

Il rifiuto del reale, dunque, non è soltanto una fuga romantica, ma un’esigenza strutturale della sua psiche. La realtà, con le sue imperfezioni, la sua opacità, il suo carattere dialogico, rappresentava per Poe una minaccia costante alla stabilità del sé. È per questo che si rifugia nella letteratura, nella visione, nella simbolizzazione estrema. Il reale è, per lui, il luogo della perdita, del rifiuto, dell’abbandono. Solo l’immaginazione offre la possibilità di un amore che non finisce, che non tradisce, che non si corrompe.

La diagnosi di Pruette, pur nella terminologia del suo tempo, è sorprendentemente acuta: Poe non era solo un uomo in cerca di amore, ma un uomo che non poteva sopportare l’amore reale. Ogni volta che l’affetto si incarnava, veniva sabotato, trasformato in tragedia o sublimato in arte. Questa tensione tra desiderio e negazione, tra bisogno e paura, è il cuore pulsante della sua poetica e della sua sofferenza psichica. Ed è proprio qui che la sua opera si fa universale: nel rappresentare il dramma di chi vuole amare ma non sa come farlo senza dissolversi.

3. La poetica della morte e della bellezza: eros e thanatos

Nell’opera di Edgar Allan Poe, la bellezza si sublima nel morire, e il morire si trasfigura nella bellezza. La sua poesia non è mai celebrazione della vita, ma piuttosto un’elevazione tragica del momento della perdita, del disfacimento, del trapasso. Per Poe, ciò che è sublime è ciò che fugge, ciò che muore, ciò che non è più: “la morte di una donna bella è senza dubbio il più poetico dei soggetti” (Pruette, 1920, p. 385), scrive, fissando così in una sola frase la propria poetica definitiva. Non si tratta di una provocazione, né di un compiacimento morboso, ma della formula poetica attraverso cui Poe tenta di rendere dicibile l’indicibile: la tensione fra eros e thanatos, tra desiderio e annientamento.

L’“introversione profonda” di cui parla Pruette (p. 380) si manifesta proprio nella costruzione di un mondo immaginario in cui la morte non è rifiutata, bensì accolta, desiderata, perfino celebrata. Poe non fugge il pensiero della dissoluzione, lo insegue, lo decora, lo mitizza. La morte, in particolare quella femminile, diventa il punto in cui si incontrano l’impulso erotico e quello estetico. Le sue eroine non vivono mai a lungo: languiscono, si dissolvono, ritornano sotto forma di visione o di fantasma. In Annabel Lee, ad esempio, la morte è l’unica condizione che può garantire la purezza assoluta dell’amore: “ma neanche gli angeli in cielo / potranno separare la mia anima dall’anima / della bella Annabel Lee”. La sepoltura, più che una fine, è un’unione definitiva.

Questa concezione si ritrova anche in The Raven, dove la voce del poeta si leva nella notte interrogando un uccello funesto che diventa simbolo dell’impossibilità di superare il lutto. La donna perduta, Lenore, non ritorna mai, ma è l’ossessione che plasma ogni verso. E ancora, in The Sleeper, la camera mortuaria si trasforma in uno spazio sacro in cui la donna addormentata nella morte è custodita come un’icona religiosa. In tutti questi testi, la donna non è un soggetto vivente, ma una presenza idealizzata e silenziosa, una figura contemplata nella sua assenza. L’atto poetico diventa così necrofilo, non nel senso patologico, ma in quello simbolico: solo ciò che è morto può essere amato senza conflitto, senza alterità, senza rischio di delusione.

Pruette sottolinea con finezza come questi motivi siano collegati a una tendenza estetizzante che domina tutta l’opera di Poe. La sua non è una visione clinica della morte, ma una visione ornamentale. Le descrizioni, infatti, non sono mai crude: sono raffinate, quasi pittoriche. Nella novella Ligeia, ad esempio, la camera in cui si consuma la morte della protagonista è descritta con un gusto barocco che trasforma lo spazio funebre in un tableau visivo: “il letto nuziale era basso, scolpito in ebano massiccio, con sopra un baldacchino simile a un sudario” (p. 388). Qui la morte non è trauma, ma rituale; non è violenza, ma messa in scena. Poe trasforma la decadenza in oggetto estetico, sovrapponendo la poetica gotica a un impulso psichico più profondo: la rimozione del corpo vivo, imperfetto, a favore di un simulacro perfetto, perché immobile.

Anche la simbologia cromatica che permea l’opera di Poe è, secondo Pruette, parte integrante di questa sublimazione del disfacimento. I colori dominanti – nero, rosso, oro – sono carichi di significati profondi: il nero rappresenta ovviamente la morte, il lutto, la notte; il rosso è il colore del desiderio, della vita che si consuma, ma anche del sangue, della colpa; l’oro, infine, è il colore dell’illusione, della vanità, della bellezza apparente. Questo triplice codice visivo costruisce una grammatica simbolica in cui ogni narrazione è anche una messa in scena psicologica. Ogni racconto è un rito funebre, ogni poesia è una veglia mortuaria che non termina mai.

La dialettica eros/thanatos, come ben sa chi ha frequentato la psicoanalisi freudiana (che Pruette anticipa con grande lucidità), non è una semplice opposizione: è un intreccio. L’eros non è l’amore sereno, ma l’amore che vuole possedere totalmente, fino a cancellare l’altro; il thanatos non è solo la morte, ma il ritorno al silenzio, all’indistinto, alla quiete assoluta. In Poe, i due impulsi si fondono in un’unica visione: quella dell’amore che culmina nel sepolcro. Come se l’estremo atto d’amore non fosse l’unione, ma il pianto sulla tomba.

Ciò che colpisce nell’analisi di Pruette è la sua capacità di leggere questa poetica non come eccentricità letteraria, ma come espressione sintomatica di un conflitto interno irrisolto. Poe non descrive la morte per compiacimento gotico, ma perché in essa trova l’unica forma di stabilità emotiva. L’amore vivo è instabile, ambiguo, frustrante; quello morto è eterno, immobile, puro. In questa prospettiva, la bellezza stessa è condannata a morire per essere veramente tale. La giovinezza, la grazia, la tenerezza – tutti questi attributi sono destinati a un’estetica della decomposizione.

Infine, c’è da notare come questa visione non riguardi solo i personaggi femminili, ma anche l’io poetico stesso, che si contempla nella sofferenza, nella perdita, nella rovina. Poe non è mai spettatore distaccato: è sempre parte del dramma, ne è la voce, il testimone e la vittima. Ogni sua poesia è un’elegia, ma anche un autoritratto, un tentativo di dare forma e significato a quel senso di dissoluzione che permeava la sua vita interiore. La bellezza, dunque, non è solo ciò che muore: è ciò che, morendo, restituisce un ordine all’abisso.

4. Nevrosi, sadismo e masochismo: una mente dilaniata dal desiderio di potere

Dietro il virtuosismo stilistico e la precisione formale delle sue opere, Edgar Allan Poe cela un universo interiore dominato da conflitti psichici irrisolti, da impulsi distruttivi e da una sensibilità nevrotica che trasforma ogni narrazione in una confessione mascherata. Lorine Pruette, nel suo saggio pionieristico, non esita a interpretare molte delle produzioni letterarie di Poe come “manifestazioni di sadismo sublimato”, dove la crudeltà non è mero ornamento gotico, ma strumento psichico di compensazione (Pruette, 1920, p. 390). L’immaginazione dello scrittore, secondo la studiosa, “si compiaceva di torture ingegnose, spesso pari per crudeltà a quelle dell’Inquisizione”, segnalando una fascinazione profonda per la sofferenza, la violenza, l’annientamento dell’altro.

Questa tendenza sadica non è da intendere solo nel senso sessuale del termine, ma come modalità di relazione perversa con il mondo: Poe esercita controllo sul lettore attraverso il terrore, sulle sue creature letterarie attraverso la morte, sulla realtà attraverso la deformazione narrativa. Nei racconti più noti, come Il cuore rivelatore o Il pozzo e il pendolo, si manifesta una volontà di potenza frustrata che trova sfogo in fantasie di dominio assoluto: l’uccisione, la tortura, la sorveglianza ossessiva diventano gesti simbolici attraverso cui il soggetto si illude di affermare sé stesso. Ma questa affermazione, sottolinea Pruette, non nasce da forza, bensì da insicurezza. Poe è, nella sua essenza, “una personalità che non tollerava nessuna superiorità” (p. 375), incapace di sostenere rapporti in cui l’altro, reale o immaginario, occupasse una posizione dominante.

La costruzione narrativa di Poe è, così, una continua strategia per ribaltare gerarchie: il carnefice è anche vittima, l’assassino è divorato dal senso di colpa, il persecutore si rivela perseguitato dalla propria coscienza. Il sadismo si rovescia nel suo opposto, e qui affiora un’altra dimensione fondamentale della psicologia poetica di Poe: il masochismo. In racconti come A Predicament o Loss of Breath, lo scrittore non si limita a descrivere la sofferenza altrui, ma costruisce situazioni in cui il protagonista – spesso alter ego dell’autore – viene mutilato, umiliato, ridotto a oggetto. È come se, attraverso la rappresentazione del proprio annientamento, Poe cercasse una forma di espiazione o di purificazione. Pruette parla, in questo senso, di un vero e proprio “compiacimento nel dolore” (p. 391), un piacere oscuro che scaturisce non dalla sopraffazione dell’altro, ma dalla propria stessa sottomissione.

La dinamica sadomasochistica si rivela dunque la vera struttura portante dell’universo narrativo di Poe. In lui non c’è stabilità né nell’identità né nel desiderio: l’io narrante oscilla continuamente tra la posizione del dominatore e quella del dominato, tra colui che infligge il dolore e colui che lo accoglie come unica prova di esistenza. Questo dualismo è sintomo di una nevrosi profonda, in cui l’impulso di autodistruzione si traveste da volontà estetica, e viceversa. La bellezza delle sue descrizioni – dei corpi mutilati, delle stanze claustrofobiche, delle morti lente e simboliche – è sempre il frutto di una mente che trova nella distruzione una via per riordinare il caos interno.

Pruette interpreta questa tensione come espressione di un io instabile, privo di un nucleo coerente, che si frammenta e si ricompone solo nell’atto creativo. La letteratura, per Poe, è l’unico spazio in cui le sue pulsioni contraddittorie possono essere accolte, espresse e perfino celebrate. La nevrosi non viene curata, ma esibita; il trauma non viene rimosso, ma rappresentato in forme sempre più elaborate e simboliche. Ecco allora che il lettore si trova coinvolto in un teatro della crudeltà raffinato, dove ogni dettaglio – la lama oscillante, il battito del cuore, la risata finale – diventa il riflesso di una psiche dilaniata.

L’ossessione per il potere, così evidente in molte opere, è in realtà un sintomo della sua impossibilità: Poe non possiede né il mondo né sé stesso. Il potere che immagina, proietta e invoca è sempre instabile, destinato a crollare. Anche i suoi personaggi più spietati sono spesso vittime della loro stessa psiche: basti pensare a Il gatto nero, dove l’omicida viene smascherato non da un detective, ma dal proprio inconscio, che agisce contro di lui. In questo senso, la letteratura di Poe anticipa le grandi tematiche dell’inconscio freudiano: il ritorno del rimosso, il trionfo del sintomo, la vendetta dell’io scisso.

La poetica e la psicologia, come già osservato da Pruette, convergono dunque in un punto: l’impossibilità di trovare pace, se non nella distruzione. La quiete, per Poe, non è nella riconciliazione, ma nell’annientamento. La fine è l’unica forma di equilibrio. Questo paradosso è al centro della sua visione del mondo e della letteratura: amare significa perdersi, vivere è già un declino, scrivere è sezionare il proprio dolore.

L’opera di Poe, nella lettura di Pruette, non è dunque solo un monumento della letteratura gotica, ma un documento clinico, un’autopsia dell’anima. Essa ci mostra come un artista possa trasformare le proprie ferite in linguaggio, e il proprio linguaggio in forma d’arte. Ma ci mostra anche, con crudele chiarezza, che la bellezza può nascere dalla sofferenza solo al prezzo della pace interiore. E Poe, forse più di chiunque altro, ha saputo incarnare questa verità.

Riferimento bibliografico:
Pruette, L. (1920). A Psycho-Analytical Study of Edgar Allan Poe. The American Journal of Psychology, Vol. 31, No. 4 (Oct., 1920), pp. 370-402. University of Illinois Press.

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