Emma Bovary o l’impossibile figura del desiderio

Emma Bovary incarna il dramma borghese del desiderio inappagato. Non solo sognatrice o vittima, ma costruzione maschile dell’infelicità femminile. Flaubert la rende specchio tragico di un’epoca e della sua ipocrisia.

Chi è davvero Emma Bovary? Un’eroina tragica, una sognatrice ingannata dai romanzi d’amore, una figura letteraria senza tempo che attraversa i secoli, oppure un enigma oscuro, un volto che sfugge a ogni definizione, una proiezione maschile del desiderio femminile, irrisolta e irrisolvibile? Non è forse, in fondo, un personaggio che resiste alla lettura univoca proprio perché costruito sull’ambiguità, sul non detto, sullo scarto tra ciò che appare e ciò che realmente agisce? Emma è Don Chisciotte, certo, ma è anche la sua ombra: laddove il cavaliere errante combatte per un ideale cavalleresco, lei cerca una forma assoluta di amore, di bellezza, di esistenza; laddove lui sfida il mondo per fede, lei si infrange contro il mondo per desiderio. E se è vero che Flaubert, con celebre e sibillina dichiarazione, affermava “Madame Bovary c’est moi”, non si può dimenticare che quella voce era pur sempre maschile, e dunque interna a un sistema di rappresentazione che, nel definire la donna, la relega. Emma nasce da uno sguardo maschile, è il frutto di una mente che cerca di comprendere – o di controllare – l’inafferrabilità del femminile. Ecco perché la sua tragedia non è solo narrativa, ma epistemologica: chi può davvero conoscere Emma, se non lei stessa? E lei, può conoscersi?

È qui che Balzac entra in scena, non come semplice riferimento letterario, ma come vera e propria matrice originaria. Le sue donne – passionarie, socialmente ambiziose, disperate – anticipano Emma come figure in tensione tra destino e volontà. Flaubert le eredita, ma le rifonde. Prende quella materia pulsante e ne fa qualcosa di glaciale, stilizzato, irreversibile. Laddove Balzac infonde nelle sue eroine un’energia quasi vitalistica, Flaubert affila la lama della sua prosa fino a trasformare il pathos in estetica, la passione in disincanto. Emma è il punto terminale di un’evoluzione letteraria, ma anche il principio di una nuova sensibilità: moderna, sfiduciata, consapevole dell’impossibilità di conciliare sogno e realtà. E così, mentre legge i romanzi rosa che l’hanno formata – romanzi scritti da uomini, con donne ideali – Emma si costruisce un’esistenza fondata sull’illusione, ma un’illusione che non è sua, bensì ricevuta, imposta, respirata. La letteratura l’ha educata al desiderio e al tempo stesso l’ha condannata alla frustrazione.

Si dice spesso che Emma sia una femme fatale. Ma si può davvero parlare di fatalità laddove non c’è calcolo, né strategia, né dominio? Emma è fatale, sì, ma suo malgrado. Lo è per Charles, che la ama con una dolcezza quasi grottesca, e che proprio per questo non la comprende; lo è per i suoi amanti, che in lei vedono una donna da conquistare e subito da dimenticare. Ma soprattutto, è fatale per se stessa, perché la sua più grande colpa è il non sapersi accontentare. Eppure, questa colpa – se colpa si può chiamare – è figlia del contesto: della provincia che la soffoca, del matrimonio che la imprigiona, della maternità che la limita, della società che la giudica. Emma desidera. Ma desidera in un mondo che non le ha mai insegnato a desiderare bene, né le ha dato i mezzi per realizzare quel desiderio. Il dramma non sta nell’adulterio, ma nel fatto che l’adulterio non salva, non libera, non trasforma. È solo un altro specchio infranto in cui la protagonista tenta di riconoscersi e fallisce.

Il matrimonio, in tutto questo, si rivela per ciò che è: una finzione borghese, un contratto sociale camuffato da amore, una trappola dorata che promette felicità e produce noia, routine, morte dell’anima. Emma entra nel matrimonio come si entra in un romanzo: piena di attese, di sogni, di immagini. Ne esce – o meglio, ne è espulsa – con una disperazione che non è solo personale, ma sistemica. Flaubert non offre redenzione, né soluzioni. Non propone un’alternativa, ma un disvelamento. Emma muore non perché è colpevole, ma perché non ha mai avuto una vera possibilità. La sua fine è teatrale, spettacolare, romanzo nel romanzo, ma anche profondamente reale, perché ci parla dell’infelicità quotidiana, silenziosa, che si nasconde dietro i salotti borghesi, i doveri familiari, le aspettative sociali. E in questa fine che si trascina tra dolori fisici e umiliazioni morali, si consuma il giudizio più feroce: non contro la protagonista, ma contro il mondo che l’ha creata.

Emma Bovary, dunque, non è solo una figura letteraria. È un dispositivo critico. Un punto di crisi. Un segno di contraddizione. In lei si incontrano e si scontrano la cultura del desiderio e la realtà del potere, l’educazione sentimentale e la repressione sociale, l’immagine della donna e la voce delle donne. E forse è proprio questa tensione irresolubile a renderla immortale. Perché Emma non muore davvero. Resta lì, sospesa tra pagina e sguardo, tra interpretazione e fallimento, tra ciò che è stata e ciò che potremmo ancora scoprire di lei. Inquieta, fragile, meravigliosamente incompiuta.

Hai quasi finito il tuo libro e cerchi un parere o un aiuto la Pubblicazione del tuo manoscritto? Contattaci Subito

Lascia un commento