Questo articolo analizza Moby-Dick attraverso il confronto tra Ismaele e Ahab, chiarendo i nodi critici su punto di vista, sopravvivenza narrativa, tensione religiosa e modernità formale che rendono Melville un anticipatore decisivo.
Parlare di Moby-Dick significa, ancora oggi, misurarsi con una resistenza: resistenza alla sintesi, resistenza all’allegoria chiusa, resistenza a una gerarchia stabile dei punti di vista. È qui il primo nodo critico, forse il più duraturo. Il romanzo sembra promettere una storia — la caccia alla balena — e invece la dilata, la interrompe, la devia; sembra offrire un narratore affidabile, e invece lo espone a continue metamorfosi; sembra alludere a un senso ultimo, religioso o metafisico, e poi lo ritrae. La critica ha discusso a lungo se questa instabilità fosse un limite, un eccesso, o una strategia. Oggi appare sempre più chiaro che Melville non “fallisce” nel dare unità al libro: mette in scena un mondo in cui l’unità non è più garantita. Il confronto tra Ismaele e Ahab, letto senza enfasi simbolica, ma con attenzione alle funzioni narrative, permette di chiarire molti di questi problemi.
Due personaggi, due posture conoscitive
Ismaele e Ahab non sono soltanto personaggi; sono due modi di stare davanti al reale. Ahab è concentrazione, verticalità, ossessione. Riduce il mondo a una linea retta: tutto conduce alla balena, tutto deve significare la balena. La sua forza narrativa sta nella coerenza: non devia, non dubita, non sospende. È un personaggio che agisce come se il mondo fosse decifrabile, purché lo si colpisca abbastanza a fondo. Ismaele, al contrario, procede per dispersione. Racconta, ma anche enumera; osserva, ma poi si perde; introduce una scena, quindi la commenta, quindi la abbandona. Non cerca un centro stabile. E soprattutto non pretende che ogni esperienza confluisca in una tesi. Questo contrasto ha guidato molta critica novecentesca: Ahab come volontà interpretativa assoluta; Ismaele come coscienza narrativa mobile. Ma è importante restare aderenti al testo: Ismaele non è un “anti-Ahab” ideologico. È semplicemente un altro tipo di presenza.
Il problema dei punti di vista: chi racconta davvero?
Uno dei dilemmi più discussi di Moby-Dick riguarda la gestione del punto di vista narrativo. Ismaele è il narratore dichiarato del romanzo, e tuttavia il suo racconto eccede continuamente i limiti di ciò che, in senso realistico, egli potrebbe conoscere: descrive scene a cui non ha assistito, assume la voce di altri personaggi, adotta registri che vanno dal teatro al trattato scientifico, fino a scomparire del tutto in lunghi capitoli in cui la narrazione sembra procedere senza un soggetto riconoscibile. Per lungo tempo la critica ha oscillato tra due interpretazioni opposte di questa anomalia: da un lato l’idea di un’incoerenza tecnica, di un narratore che viola le proprie possibilità e indebolisce la tenuta formale del romanzo; dall’altro la lettura, oggi più accreditata, secondo cui questa instabilità è una scelta deliberata. In quest’ottica Ismaele non ha il compito di garantire l’unità del racconto, ma piuttosto di permetterne la circolazione. Il romanzo non è costruito attorno a un punto di vista sovrano e ordinatore, bensì come un insieme mobile di discorsi — marittimi, biblici, scientifici, teatrali — che convivono senza essere ricondotti a una sintesi finale. Melville non risolve il problema del punto di vista eliminandolo o normalizzandolo, ma rendendolo strutturale, accettando che la narrazione sia il luogo di una pluralità di sguardi e non la sede di una verità unica da difendere. Per un romanzo pubblicato nel 1851, questa scelta non è soltanto audace: è profondamente anticipatrice.
Perché questo libro è centrale nell’Ottocento americano
Nel panorama della letteratura americana della metà dell’Ottocento, Moby-Dick occupa una posizione profondamente eccentrica, e proprio per questo decisiva. Pubblicato in un contesto culturale che tendeva a privilegiare narrazioni edificanti, romanzi di formazione, o resoconti realistici capaci di sostenere — più o meno apertamente — il mito del progresso e dell’espansione, il libro di Melville si colloca in una zona di attrito. Non rafforza un’identità nazionale compatta, non celebra la conquista come destino manifesto, non propone una fiducia pacificata nella razionalità o nella provvidenza. Al contrario, espone una frattura: mostra un mondo in cui la volontà umana, quando pretende di farsi assoluta, diventa distruttiva, e in cui il linguaggio religioso, pur onnipresente, non garantisce più alcuna salvezza interpretativa. La dimensione biblica che attraversa il romanzo — dai nomi dei personaggi ai sermoni, dalle immagini profetiche al tono apocalittico di molte pagine — non funziona come fondamento dottrinale, ma come campo di tensione. Ahab parla la lingua della teologia per rovesciarla, per trasformare Dio in un antagonista, per ridurre l’assoluto a un bersaglio; Ismaele, invece, si muove entro una religiosità più incerta, intermittente, spesso ironica, che non pretende di risolvere il mistero ma accetta di abitarlo. In questo scarto si riflette una crisi più ampia, che riguarda l’intera cultura americana del tempo: la difficoltà di conciliare fede, conoscenza e dominio del mondo. Moby-Dick diventa così centrale non perché rappresenti fedelmente il suo secolo, ma perché ne intercetta le contraddizioni più profonde prima che trovino una formulazione storica esplicita. È un romanzo che guarda all’interno del progetto americano e ne registra le crepe, mostrando come la spinta prometeica, quando si carica di assoluto, conduca non alla fondazione, ma al naufragio. Proprio per questo, e nonostante l’iniziale incomprensione, il libro si impone come uno dei testi chiave della letteratura statunitense: non un racconto identitario, ma una interrogazione radicale sui limiti morali, religiosi e conoscitivi di una civiltà in formazione.
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