Questo studio esplora la figura di Charles Dickens come narratore della coscienza sociale vittoriana, analizzando la sua costruzione narrativa, l’evoluzione dei personaggi e il significato delle riscritture moderne, con particolare riferimento al progetto Dickensian di Tony Jordan.
Indice
- Dickens e l’Inghilterra vittoriana: un narratore nel cuore del cambiamento
- Lo stile dickensiano: personaggi, umorismo e denuncia
- Dickensian: la vita oltre la pagina
- L’eredità narrativa: personaggi che ci appartengono
1. Dickens e l’Inghilterra vittoriana: un narratore nel cuore del cambiamento
Chi era Charles Dickens, se non la voce – vibrante, inesausta, a tratti indignata – di un’Inghilterra che cambiava troppo in fretta e troppo ingiustamente? Nato nel 1812, in un’epoca in cui la rivoluzione industriale stava trasformando il paesaggio urbano e sociale del Regno Unito, Dickens divenne il più grande cronista del disagio che ne derivava. Le sue opere, distribuite a puntate nelle riviste popolari, giunsero direttamente nelle mani e nei cuori di lettori appartenenti a tutte le classi sociali. Era, come osserva McKernan (2018), “un narratore seriale il cui potere risiedeva nella capacità di rendere personale e intimo ciò che era strutturalmente collettivo”. L’età vittoriana fu un tempo di contraddizioni: grande sviluppo economico e progresso tecnologico si accompagnavano a miseria estrema, sfruttamento minorile, e una morale pubblica spesso ipocrita. Dickens vide tutto questo, e lo riversò nei suoi romanzi, non con la freddezza del sociologo, ma con la passione del testimone. Ogni opera è un affresco sociale – un catalogo di ingiustizie, di personaggi deformati dal potere o dalla povertà, ma anche di umanità irriducibile, di speranza, di compassione. Il suo rapporto con la città, e in particolare con Londra, è emblematico. Londra non è solo sfondo, ma organismo vivente, a tratti opprimente, a tratti rivelatore. Nei vicoli oscuri di Oliver Twist, negli uffici soffocanti di Bleak House, nei salotti svuotati di calore di Great Expectations, Dickens trasforma l’ambiente urbano in personaggio, specchio delle disuguaglianze. Non descrive, ma evoca; non denuncia soltanto, ma scolpisce nella memoria. Dickens, insomma, fu un autore della modernità incipiente, eppure ancorato a valori eterni: la giustizia, la dignità, il bisogno di raccontare storie per non dimenticare. Come scrivere del progresso se si tace il suo prezzo? Come parlare di morale senza ascoltare chi è privo di voce? Le sue opere pongono domande, ma lasciano anche spazio alla consolazione narrativa, alla possibilità del riscatto – una tensione tra realismo e speranza che definisce tutto il suo progetto letterario.
2. Lo stile dickensiano: personaggi, umorismo e denuncia
Lo stile di Charles Dickens è un laboratorio di invenzione continua, un luogo dove l’oratoria si fonde con la narrazione, e dove ogni frase sembra costruita per essere ricordata. Il suo lessico è ricco, vibrante, spesso ironico; le sue descrizioni, minuziose fino all’eccesso, si caricano di una funzione che va ben oltre il puro realismo: esse disegnano caratteri morali, evocano stati d’animo, incarnano le contraddizioni di un’epoca. Nessuno, come Dickens, ha saputo creare una galleria di personaggi tanto memorabili: Mr. Micawber, Fagin, Scrooge, la signorina Havisham… Ognuno di essi è immediatamente riconoscibile, definito da tic verbali, atteggiamenti ripetuti, gesti ossessivi. Come nota McKernan (2018), “i personaggi di Dickens tendono a vivere in un mondo tutto loro. Soliloquiano. Non parlano davvero con gli altri; parlano a se stessi”. La loro forza deriva proprio da questa solitudine interiore, da questa tensione tra il mondo esterno e una interiorità esasperata. Ma lo stile dickensiano non è solo drammatico. Esso è attraversato da una vena di umorismo nero, di caricatura, di grottesco che gli consente di affrontare temi cupi – come la povertà, la morte, la corruzione – senza mai precipitare nella disperazione. L’elemento comico si mescola al tragico, la burla al patetico, creando un equilibrio narrativo unico. È in questa miscela che Dickens dimostra la sua arte: egli fa ridere e piangere nello stesso capitolo, a volte nella stessa pagina. A livello sintattico, il suo stile rispecchia l’oratoria classica. Periodi ampi, ricchi di subordinate causali, finali, concessive; un ordine delle parole volto a creare enfasi e sorpresa; l’uso strategico della ripetizione per rafforzare concetti chiave – tutte caratteristiche che, come osservano gli studiosi della retorica ciceroniana, ritroviamo anche nel suo modo di costruire paragrafi e argomentazioni. Dickens era, in fondo, un oratore travestito da romanziere. La sua è una scrittura fatta per essere letta ad alta voce – e non a caso, egli stesso organizzava letture pubbliche delle sue opere. Scrivere, per lui, era un atto sociale, un modo per entrare in dialogo con un pubblico ampio, trasversale, attento. E proprio per questo, ogni pagina di Dickens è attraversata da una tensione: quella tra la letteratura come forma d’arte e la narrativa come strumento di cambiamento.
3. Dickensian: la vita oltre la pagina
Cosa accade quando i personaggi di un autore vengono strappati dal loro contesto originario e intrecciati in nuove trame? È ciò che tenta di rispondere il progetto televisivo Dickensian (2015–2016), ideato da Tony Jordan, che ha immaginato un universo condiviso in cui le figure più celebri dei romanzi di Charles Dickens convivono e interagiscono, come se appartenessero a un’unica grande narrazione. McKernan (2018) definisce questa operazione “un viaggio suggestivo nella mente di Charles Dickens, reinventando la sua opera come una Comédie Humaine balzachiana”. La serie televisiva prende avvio con una scena emblematica: Jacob Marley, cupo usuraio di A Christmas Carol, viene trovato morto. A indagare è l’ispettore Bucket (Bleak House), mentre nel frattempo vediamo Arthur Havisham (Great Expectations) complottare contro la sorella Miss Havisham, Fagin (Oliver Twist) impartire ordini a Nancy, e Little Nell (The Old Curiosity Shop) in fin di vita. Si delinea così un’epopea interconnessa, dove gli universi narrativi di Dickens si contaminano e si completano. Secondo Jordan, l’idea nacque dal suo lavoro sulla serialità televisiva e dal riconoscere in Dickens un “maestro delle trame intrecciate e dei colpi di scena” (Jordan, 2015b). Il parallelismo tra Dickens e le soap opera non è una forzatura: entrambi fondano la loro forza sulla costruzione di una comunità fittizia, sul coinvolgimento emotivo continuo, sull’attesa del prossimo episodio. McKernan (2018) lo ribadisce: Dickensian “ricordava allo spettatore che i personaggi vivono nella nostra immaginazione proprio perché sono convincenti, e possono essere sostenuti anche in altre forme, dove vi sia sufficiente immaginazione e fiducia”. Tuttavia, questa reinvenzione ha sollevato interrogativi critici: fino a che punto si può riscrivere Dickens senza tradirne l’essenza? Ben Dowell (2015), ad esempio, lamenta che “i personaggi, una volta strappati dalle loro storie, perdono la loro ragion d’essere”. Ma McKernan ribatte con decisione: “gli scrittori non possiedono veramente i personaggi che creano. Se l’autore ha infuso in essi vita, allora le nostre immaginazioni devono completare ciò che ci è stato offerto”. Dickensian, pur nella sua breve vita (una sola stagione), ha mostrato come i personaggi di Dickens possano essere reinterpretati senza essere svuotati. Al contrario, questa operazione dimostra che Dickens è diventato un autore “open source”: i suoi personaggi ci appartengono, non perché li abbiamo creati, ma perché li abbiamo interiorizzati. Rielaborarli è, oggi, una forma di lettura creativa, un modo per farli vivere ancora.
4. L’eredità narrativa: personaggi che ci appartengono
L’opera di Charles Dickens ha oltrepassato i confini della sua epoca e continua a vivere – e a mutare – attraverso generazioni di lettori, spettatori, riscrittori. La sua eredità non si misura solo nell’influenza esercitata sulla letteratura successiva, ma nella capacità dei suoi personaggi di entrare a far parte dell’immaginario collettivo, in modo quasi mitologico. Sono figure “vitali”, nel senso più pieno: nascono dalla penna dell’autore, ma si emancipano da essa, reclamando una vita propria. McKernan (2018) lo afferma chiaramente: “i personaggi di Dickens sono ‘appropriati’ dai lettori e dagli spettatori, perché generano affetto, senso di appartenenza, desiderio di estensione. Una volta che ti chiedi quanti figli avesse Lady Macbeth, qualcuno vorrà sapere la risposta – e qualcun altro la scriverà”. È questa tensione – tra fedeltà e immaginazione – a rendere Dickens uno scrittore ancora attuale. Le sue storie ci parlano, perché lasciano spazio alla nostra voce. In questo senso, l’esperienza di Dickensian si pone come esempio emblematico di una letteratura che non è mai davvero “conclusa”. L’autore originale fissa dei limiti; ma la ricezione, la riscrittura, l’adattamento – nel teatro, nel cinema, nella televisione – disegnano nuove mappe possibili. Come osserva Jordan (2015a), immaginare una giovane Miss Havisham, vedere la sua gioia prima del disastro, significa riappropriarsi di un frammento umano che Dickens stesso aveva solo suggerito. Non si tratta di tradire, ma di amplificare, completare, immaginare insieme. Persino le critiche, come quella classica di L.C. Knights, che ammoniva contro la tentazione di “umanizzare” troppo i personaggi fittizi, perdono oggi parte della loro forza. L’epoca della lettura lineare è superata: viviamo nel tempo del remix, della partecipazione, del fanfiction, dove la “fedeltà” cede il passo alla “continuità emotiva”. McKernan (2018) lo sintetizza così: “La vita dei personaggi si sostiene altrove, se c’è abbastanza immaginazione e convinzione. È altrettanto importante reinventare queste storie, quanto leggerle”. In definitiva, Charles Dickens non è soltanto un autore del passato. È un interlocutore, un mondo, un patrimonio condiviso. E finché continueremo a leggere, interpretare, riscrivere – Scrooge, Nancy, Pip e Miss Havisham continueranno a camminare al nostro fianco.
Riferimenti bibliografici
McKernan, L. (2018). The Lives of the Characters in Dickensian. In I. Christie & A. van den Oever (Eds.), Stories (pp. 183–192).